IL MESSAGGERO – M. FERRETTI/U. TRANI – Mister DiBenedetto, come mai la Roma e il suo ingresso nel calcio?
«Ho amici negli States che mi hanno parlato di questa possibilità, ho avuto modo di incontrare persone che avevano lavorato a Roma e con la Roma, mi hanno chiesto se ero interessato e più riflettevo sulla possibilità di prendere la Roma e più pensavo a quello che si poteva fare. Sì, Tacopina l’ho conosciuto attraverso un altro amico: lui è grande tifoso della Roma. Io ero mosso da un enorme affetto per l’Italia e per Roma: sono stato studente al Trinity College, anche mio figlio ha studiato lì, conosco bene il vostro Paese e avrei voluto fare da sempre affari in Italia, in particolare a Roma. Mia madre mi diceva sempre: hai fatto business in tutto il mondo e non a Roma. Alla prima occasione l’ho fatto. Roma è una città speciale, piena di storia e di architettura che sono lo sfondo della nostra squadra. Se non avessi preso la Roma, non avrei preso nessun’altra squadra italiana».
Quando ha visto la prima partita di calcio?
«Ho cinque figli e tutti giocano a soccer, e lo fanno da quando erano piccoli. In più, mio padre è stato calciatore». Dove giocava suo papà? «Iniziò con una squadra giovanile di Siano, in Campania. Quando si trasferì negli Usa, dopo la seconda guerra mondiale, aveva sedici anni e cominciò a giocare nel campionato statunitense che però fu presto cancellato».
Nei suoi primi mesi di esperienza nel nostro calcio, che cosa non le sta piacendo?
«Il problema più spinoso è l’atmosfera che si respira negli stadi, tanto diversa da quella che c’è negli impianti in Inghilterra. Gli inglesi hanno pensato i loro stadi esclusivamente per il calcio, in Italia sono strutture polivalenti dove però si nota la lontananza tra i tifosi e la squadra e dove l’energia della gente si disperde. Avvicinare il pubblico significa avere a fine stagione sei-otto punti in più in classifica. Qui qualche stadio è simile a quelli della Premier: penso a Marassi, ad esempio».
Quindi come pensa di risolvere il problema?
«Non bisogna avere stadi per forza grandi. Penso che per noi uno da cinquantamila posti sarebbe sufficiente. Ma devono essere ospitali. Per vivere l’evento prima, durante e dopo, e per dare un buon motivo alla gente per venire. Il grande avversario è la tv: è più comodo vedere un match in 3D e sdraiati sul divano. Invece noi dobbiamo riportare le famiglie allo stadio. Anche straniere. Penso alle ambasciate. Troppe persone, magari non italiane, sono scoraggiate dalla violenza. Non si sentono sicure. Noi le famiglie vogliamo farle sentire a proprio agio, coinvolgerle. Convincerle a stare a lungo allo stadio, dove si possono fermare anche per mangiare».
In Italia è dura anche arrivare allo stadio: ne ha preso atto?
«I servizi sono fondamentali: bus, metro e parcheggi aiutano a portare più gente in tribuna».
Ha già parlato con le istituzioni locali del progetto del nuovo stadio?
«Sì, abbiamo visto già diverse aree e stiamo valutando l’analisi finanziaria. Le soluzioni ci sono, presto decideremo».
Che cosa ha in testa, momentaneamente, per rendere più funzionale l’Olimpico?
«Stiamo lavorando con il Coni proprio in questi giorni su alcune cose. La prima è migliorare l’intera area, rendendola più accogliente. Dobbiamo dare qualcosa di diverso alla gente prima del match».
Pensa di poter portare la sua Roma ai livelli di Manchester United e Barcellona?
«Noi siamo ambiziosi e l’obiettivo è quello. Abbiamo due grandi esperti di sponsorizzazione e marketing, due tecnici del Raptor Accelerator fund che conoscono le realtà dei maggiori club d’Europa. La strada da percorrere è quella dello United: sarà lunga e non possiamo pretendere di raggiungere il top in poco tempo».
A tre mesi dal closing, questa avventura se la immaginava più facile o più difficile?
«Ho la massima fiducia nei manager che abbiamo scelto per guidare la società. Da questo punto di vista, guardando i risultati, non sono preoccupato perché so che c’è bisogno di tempo e so che prima o poi, spero prima, saremo ad ottimi livelli. Ho massimo rispetto per Baldini, Sabatini e Luis Enrique, tutte persone che propongono un approccio diverso dal solito: sono persone che vogliono costruire una nuova cultura e credo che anche la gente nutra lo stesso desiderio. Il nostro business? Ci sono molte differenze tra Usa e Italia, per noi all’inizio è stato molto importante avere manager come Fenucci: è stata una fortuna che la banca ci abbia permesso di averlo con noi e la collaborazione tra la banca e Claudio ha portato a raggiungere obiettivi che in quel periodo era difficile raggiungere. Ci sono molti aspetti legati agli affari nel mondo del calcio che andrebbero cambiati: con meno burocrazia, ad esempio, si potrà fare molto di più; le autorità cittadine e regionali sono nostri collaboratori, vogliono che il nostro progetto vada a buon fine».
Ha in mente di portare in Italia lo show stile americano legato ad un avvenimento sportivo?
«In alcuni sport, le partite vengono viste come uno spettacolo, ma anche negli States molti club hanno gli stessi problemi che ci sono in Italia, cioè ambienti non sempre accoglienti per i tifosi, e qualche club sta tentando di riqualificare le aree e creare un ambiente più festoso. Anche noi, come detto, stiamo cercando di lavorare con il Coni per fare qualcosa in questo senso all’Olimpico, che è la nostra casa, che vorremmo sfruttare al meglio. Ci stiamo lavorando, l’idea base è migliorare l’intera area intorno allo stadio per renderla più accogliente possibile».
Un suo primo, mini bilancio?
«Siamo abbastanza in linea con i tempi che c’eravamo dati. Per quanto riguarda il marketing abbiamo uno staff di esperti che sta lavorando bene, avendo creato buoni rapporti con partner strategici; avremo presto un nuovo sito web, che sarà più friendly; su facebook abbiamo avuto 550 mila contatti e tra poche ore on line si potrà comprare materiale della Roma (asromastore.it)».
La sua Roma ha un chiaro stile: non si lamenta mai con gli arbitri, non protesta.
«Questo ci viene da Baldini in primis passando per Sabatini e Luis Enrique: è un nostro stile, vero. L’idea è creare una cultura che sia rispetto verso arbitri e avversari; in sintesi dare onore alla squadra che si batte in campo».
Ha paura di perdere di De Rossi?
«C’è una persona, Baldini, che sta cercando di arrivare ad un accordo: sono fiducioso. Manca poco? Non abbiamo più molto tempo, il contratto è ormai scaduto ma sono ottimista».
Che idea si è fatto di Luis Enrique?
«Giovane, ma di successo: basta ripercorrere la sua carriera anche da calciatore. Dove è andato ha sempre vinto. Ha tanti giocatori nuovi e una rosa troppo ampia: scontate le difficoltà iniziali. Sono, però, sicuro che raccoglierà tanto anche con la Roma. E’ concentrato e competitivo. Insomma sa che cosa deve fare per conquistare i successi che tutti noi ci aspettiamo. Gli basterà trasmettere fiducia ai giocatori».
È vero che, come Rosella Sensi, anche lei sarà stipendiato della Roma?
«È stata una decisione presa dal Cda: se i consiglieri avessero deciso che era una cosa inopportuna, non avrebbero detto sì. Per me non è strano che professionisti di qualsiasi settore vengano pagati. Anch’io avrò un salario, ma il compenso deve ancora essere definito».
Ha capito come mai Totti a Roma sia così amato?
«Francesco è uno più grandi giocatori della storia italiana, di lui ho sempre ammirato la capacità di unire assist e gol, una cosa molto difficile. Mi ha colpito la sua determinazione nel voler far parte del progetto, mi è dispiaciuto quando ha avuto qualche infortunio, non vedo l’ora di vederlo di nuovo in campo. E’ uno di quelli che ti capita di ammirare una volta nella vita. Il suo futuro? Chiederò a lui quello che vorrà fare nella Roma, ma è ancora molto giovane».
Quanti anni le servono per vincere lo scudetto?
«Noi vogliamo vincerlo prima possibile. Talvolta le cose, però, non vanno come da programma e per questo è importante avere un piano di lavoro per costruire una squadra vincente. Quanto tempo ci vorrà non lo so, ma sono ottimista. Spero il meno possibile, ovviamente. È interessante vedere ciò che sta accadendo in Inghilterra dove Baldini e Capello stanno ottenendo grandi risultati dopo esser riusciti a individuare giocatori che altri avevano trascurato. Ecco, è importante creare una squadra in cui tutti lavorino con rispetto verso l’obiettivo comune. Poi starà a noi società, reperire le risorse necessarie per aiutare la squadra a vincere lo scudetto».
Quali sono i suoi rapporti con la Lazio e con il presidente Lotito?
«Quando sono arrivato nella capitale, sapevo bene di quanto fosse grande la rivalità tra i due club. E conoscevo anche un po’ di storia della società biancoceleste. Ma la Roma è sempre stata su un piano differente rispetto alla Lazio. Siamo un’altra cosa. Lotito l’ho incontrato e salutato».
Collaborerà con il presidente biancoceleste?
«Non lo so. Vedremo più avanti»
. Ha trovato casa?
«Ancora no. Sto decidendo dove prenderla».
La più bella soddisfazione di questi primi tre mesi?
«Vedere Totti sacrificarsi quotidianamente, con enorme dedizione, per far parte del gruppo dopo i dubbi delle prime settimane. E’ stato ed è ogni giorno un vero esempio per i compagni».
E la più grande delusione?
«Gli errori, da non ripetere, commessi in alcune gare che potevamo vincere o pareggiare e invece abbiamo perso. Ma sull’impegno di tutti, niente da dire a nessuno».