Portaci in Europa

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IL ROMANISTA (P. FRANCHI) – Non sono un tecnico, niente commenti tecnici. Ma in vita mia raramente mi è capitato di litigare con il televisore tanto quanto ci ho litigato sabato pomeriggio, guardando la partita.

E non ce l’avevo con il telecronista e il commentatore. Ce l’avevo con la Roma, e quindi, per via della proprietà transitiva, con me stesso. Soprattutto, ma non soltanto, nella prima mezz’ora. Leggo che, nei trenta minuti in questione, avremmo subito troppo, rinunciando a fare il nostro gioco moderno e propositivo. Mi sembra un’accusa grave, ma sorretta da una diagnosi troppo ottimistica. Perché non si può coltivare nessuna idea, né conservatrice né riformista né rivoluzionaria, e non si può fare nessun gioco, né quello di Lucho né quello del Trap, se non si riesce mai a ripartire perché si perdono quasi per definizione tutti i contrasti e si sbagliano a decine i passaggi più elementari.

Mi direte che, nonostante tutto, poi abbiamo segnato, e che nel secondo tempo, anche dopo il rigore del Milan, abbiamo giocato un po’ meglio: tanto che, senza una vistosa disattenzione difensiva, chiamiamola così, avremmo potuto benissimo pareggiare. Sulle nostre “disattenzioni difensive”, sono un militante romanista e non ho nulla da dichiarare, salvo una esortazione a non buttare la croce tutta sulle spalle del povero Kjaer, che a Milano, tra l’altro, secondo gol di Ibra a parte, ha fatto una buona partita. Quanto al resto, nessun romanista serio immaginava di vincere a Milano. Ma il modo all’apparenza almeno abbastanza casuale in cui è maturata la sconfitta mi ha, se possibile, innervosito ancora di più. La Roma, in classifica, è sesta, e da quelle parti, ci scommetterei, resterà sino alla fine. Non è questo il problema, un piazzamento simile c’era da metterlo in conto sin dall’inizio, la storia della Champions non esiste e, per me, non è mai esistita. (…)

Quello che volge alla fine si rivelerà un campionato qualsiasi, al termine del quale ci troveremo di fronte grosso modo gli stessi problemi di squadra, di gioco e di giocatori, o il primo passo, parziale quanto si vuole ma visibile, di un percorso destinato a portare la Roma molto lontano? Io continuo a propendere per questa seconda lettura, ma ogni tanto (per esempio, ed è solo l’ultimo di tanti, nella prima mezz’ora della partita di Milano) mi viene da chiedermi: ma è un giudizio, il mio, o un pregiudizio favorevole, in gran parte dettato dall’irrefrenabile simpatia, non solo calcistica, che provo per l’asturiano? Alle poche partite che restano, chiederei soprattutto indicazioni utili ad allontanare simili dubbi. Troppo poco? Può darsi. Ma, come diceva uno che di rivoluzioni se ne intendeva: meglio meno, ma meglio.

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