L’Espresso – Un americano a Roma

L’Espresso – Un americano a Roma

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Dalle curve decrepite degli stadi italiani si alza un solo grido: uòtzamerican. Lo slogan caro al tifoso della Roma (e del Kansas City) Alberto Sordi è il nuovo rimedio per un calcio in cerca di ancore economiche. E, in questo campo, i maestri non sono inglesi, ma statunitensi,anche se portano cognomi paisà come Di Benedetto, D’Amore, Falcone, Pallotta,soci della cordata che tratta in esclusiva con Unicredit per la cessione dell’As Roma,o si chiamano Joseph Cala, neo-proprietario della Salernitana.

La scoperta dell’America ha la data limite del 17 marzo, quando sarà definita l’operazione intorno al club romanista. I particolari da concordare riguardano le modalità di trasferimento dei pacchetti azionari ai nuovi soci. Se tutto andrà come Thomas Di Benedetto e, per la parte bancaria, Paolo Fiorentino si augurano, si chiuderà un affare da 110 milioni di euro in contanti. Il grosso della somma (67 milioni) pagherà il 67 per cento di azioni quotate controllate da Roma 2000, la subholding passata dai Sensi a Unicredit.Altri 33 milioni saranno investiti nell’opa residuale sul capitale flottante, e 10 milioni di euro è la stima del marchio e della parte immobiliare,ossia il leasing del centro sportivo di Trigoria.

Dopo questo versamento, seguirà una prima ricapitalizzazione da 50 milioni di euro entro tre mesi, per coprire una perdita al prossimo 30 giugno stimata in 35-40 milioni di euro, e una seconda ricapitalizzazione dell’ordine di 35 milioni di euro. In totale, i pretendenti americani si dovrebbero portare a casa il club con poco meno di 200 milioni di euro. Non siamo distanti dalle cifre del mensile “Forbes”, che qualche mese fa aveva valutato la Roma 308 milioni di dollari, ossia 225 milioni di euro, piazzando i giallorossi al quindicesimo posto di una classifica dominata dal Manchester United (1,34 miliardi di euro). Il Milan è la prima italiana, settima con un enterprise value di 585 milioni.

Ammesso che abbiano comprato con un po’ di sconto, il difficile per Di Benedetto e soci deve ancora venire. Il team a stelle e strisce ha davanti una strada impervia. La squadra, ultimamente, non ha collaborato ai piani di grandezza futura. Anzi, ha fatto il possibile per bruciare le sue carte nella Champions League di quest’anno e in quella del prossimo. Sotto il profilo imprenditoriale, gli obiettivi dell’incremento delle attività commerciali e dello sviluppo immobiliare sono tutti da conquistare. Il marchio della Lupa è stato valutato 125 milioni di euro nel gennaio 2007 e dato in gestione a una società controllata dalla famiglia Sensi, la Brand Management.
Quattro anni dopo, quella cifra appare frutto di uno slancio di ottimismo, se paragonata all’offerta degli americani e, per esempio, al marchio dello United, valutato 208 milioni di euro. Quanto allo stadio nuovo, la legge bipartisan Lolli-Butti è stata emendata e poi bocciata perché consentiva la costruzione in aree protette, incluse quelle con vincolo archeologico. Il futuro della Lolli-Butti è imprevedibile e i suoi effetti sull’economia del calcio ancora di più.

La cordata Di Benedetto sbarca in serie A con un’impostazione del tutto diversa da quella abituale sui nostri campi. Intanto il concetto stesso di cordata,ricorrente nello sport professionisti per essere socio di minoranza dei Boston Red Sox (baseball), sostanzialmente non esiste nel calcio italiano ed europeo di alto livello. Circa vent’anni fa la Roma stessa,uscita dalla gestione di Giuseppe Ciarrapico,aveva tentato la strada della multiproprietà. Ma nel 1993 la coppia Franco Sensi-Pietro Mezzaroma durò pochi mesi, con l’uscita di scena del secondo. Una Spa che investe nel calcio, insomma,è destinata a una guida monocratica. E anche quando il modello non è quello della società di capitali, ma è mutualistico,con decine di migliaia di soci come accade con il Real Madrid o il Barcellona, c’è comunque una leadership individuale:un presidente che ha i pieni poteri e che fa quasi soltanto quello. Le eccezioni sono poche. Florentino Pérez del Madrid ha una holding gigantesca da seguire,ma la sua figura è isolata. In Italia,Claudio Lotito ha visto crescere la Lazio oltre le dimensioni del suo gruppo di pulizie. Altri, come Riccardo Garrone (Erg-Sampdoria) e Silvio Berlusconi (Fininvest-Milan) hanno dovuto scegliere fra pallone e attività extracalcistiche. Enrico Preziosi (Giochi Preziosi-Genoa) è sempre più vicino a cedere le attività industriali,come ha fatto prima di lui Maurizio Zamparini del Palermo. Andrea Agnelli si dedica alla Juve.

La distanza aumenta i possibili problemi di gestione. Di Benedetto abita piuttosto fuori mano rispetto all’Olimpico.La sua società di hedge fund management Boston International Group (Big) è attiva negli Stati Uniti, in paesi della Ue e in Russia,dove investe in compagnie medio-piccole attive, di preferenza, nello sviluppo delle infrastrutture e dell’energia. I suoi soci, da James Pallotta a Richard D’Amore all’assicuratore Julian Movsesian, sono bostoniani con interessi prima finanziari e poi immobiliari. Ciò significa che, di mestiere, sanno capire quali aziende possono essere valorizzate, ma non è detto sappiano come farlo. E il calcio non è tenero con i debuttanti, tanto meno con quelli che lo chiamano, all’americana, soccer.

Per adesso, le avventure statunitensi nel football professionistico italiano registrano i fallimenti di Tim Barton, che aveva quasi comprato il Bari dalla famiglia Matarrese,e di Joe Tacopina, che ha mostrato di provarci con la Roma e poi con il Bologna. Nella Premier league inglese è andata peggio. L’ultimo arrivato si chiama John Henry e ha comprato il Liverpool. È proprietario dei Boston Red Sox, dunque socio nel baseball di Di Benedetto, e il suo biglietto da visita sportivo sono le World series del 2004, vinte dai calzini rossi del Massachusetts dopo un’attesa record di 86 anni. Henry è arrivato a Liverpool in seguito al disastro finanziario dei connazionali George Gillett e Tom Hicks, proprietario dei Texas Rangers (baseball).La prima mossa di Henry è stata di vendere “el Niño” Fernando Torres al Chelsea di Roman Abramovich per 58,5 milioni di euro, rispesi quasi tutti e subito in altri acquisti. In questo modo, il Liverpool è rimasto senza il nuovo stadio e con gli stessi debiti di prima: 416 milioni di euro.

A Manchester, sulla sponda United, continua da quasi sette anni il braccio di ferro fra le organizzazioni di tifosi, che in Inghilterra possono essere altamente qualificate, e il proprietario del club, il newyorkese di origini lituane Malcolm Glazer. I buoni risultati sportivi, peraltro attenuati dalla concorrenza del Chelsea, sono oscurati da un debito mostruoso, dell’ordine di 1,1 miliardi di sterline. La maggior parte della somma è garantita dai mall americani di Glazer, che ha dato in pegno persino le sue quote nei Tampa Bay Buccaneers, franchigia di football americano. Glazer, detestato e contestato, non molla. Ma, almeno per ora, il calcio non è un paese per yankees.

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