CORRIERE DELLA SERA (A. GARIBALDI) – In questo finale di campionato un po’ malinconico per la Roma, torna alla luce un aspetto considerato ormai immutabile, scontato, come il soprammobile di casa che non vediamo più, tanto tempo è passato da quando è stato messo lì. La Roma gioca con una squadra per sette/otto undicesimi composta di calciatori stranieri e tutti i discorsi sulla campagna acquisti che dovrà l’anno prossimo necessariamente potenziarla coinvolgono esclusivamente stranieri. Come se qui – in Italia – dove milioni di persone fermano la loro esistenza per assistere alle partite e poi discutono per ore di quelle partite stesse, i ragazzi nativi non siano più in grado di giocare a calcio, o possano coprire solo ruoli marginali. Come se seguissimo, con spasmodica attenzione, un campionato italiano di baseball, sport alieno alla cultura del Paese, giocato da protagonisti americani.
Il secondo paradosso è che in questo finale un po’ malinconico per la Roma, nell’ultima partita, domenica a Torino, la squadra ha dato segni di ritrovata dignità e deve ringraziare per questo soprattutto due italiani, anzi due romani, Daniele De Rossi, di Ostia e Alessandro Florenzi, di Vitinia, personaggi che non hanno mai abbandonato la Roma. In panchina c’era Francesco Totti, terzo romano, il più grande, che infinite volte ha dimostrato come voler bene alla maglia che si indossa possa dare grinta aggiuntiva. In mezzo al campo, simbolo di altri colleghi di continente, vagava l’ivoriano Doumbia, inabile a tenere fra i suoi piedi un pallone, gli occhi sperduti di chi non ha messo a fuoco dove si trovi e perché. Nella peggiore delle ipotesi l’italiano Mattia Destro, spedito in prestito al Milan, non era peggiore di Doumbia, che ha preso il suo posto al centro dell’area di rigore avversaria: sapeva dove era capitato e non avrebbe avuto coppe d’Africa da disputare.