CORRIERE DELLO PORT – P. TORRI – Una persona per bene. Questo era Aldo Maldera. Prima ancora di essere stato un grande calciatore, uno di quelli che se giocava per la tua squadra non potevi non amare. Forse per questo da qualche anno era uscito di scena da un calcio da sotto il vestito niente. Troppo per bene per poter convivere con ipocrisie, lustrini e ricchi cotillons.
Non gli era mai piaciuta la prima fila, tanto meno la luce dei riflettori. Aldo si allenava, giocava (bene), tornava a casa, lontano da microfoni, telecamere, taccuini. Parlava poco, sottovoce, sempre con educazione e rispetto, quasi avesse il timore di dare fastidio, se lo chiamavi al telefono per avere un suo parere alla fine era lui che ti ringraziava. Non sapeva cosa volesse dire darsi delle arie e ci sarebbe piaciuto domandargli cosa pensasse di chi se le dava e magari a lui poteva solo lucidargli gli scarpini. Eppure è stato un campione, uno di quelli che avrebbe potuto vantarsi di una carriera da assoluta protagonista, prima con la maglia del Milan, poi con quella della Roma, per concluderla a Firenze con numeri che possono vantare in pochi. Lo scudetto della stella con il Milan, il secondo della Roma, sempre con il Barone Nils Liedholm in panchina che dopo averlo allenato a Milano, lo aveva fortemente voluto nella capitale al punto da scegliere di spostare a destra Sebino Nela, pure lui mancino naturale. Oggi, Aldo, sarebbe etichettato come un esterno sinistro basso, ma probabilmente se la sarebbe sentita poco addosso questa definizione, preferendo un nome che sembra essere passato di moda, cioè un terzino di fascia, forse meglio ancora un terzino d’attacco. Completo, generoso, leale, intelligente, con buonissmi piedi, una certa propensione alla porta avversaria, trentasei i gol realizzati con le maglie della sua vita, quelle del Milan e della Roma, oltre a quella azzurra della nostra nazionale indossata per dieci volte con orgoglio ed emozione (partecipò al Mondiale del 1978 in Argentina). Giocò per dieci anni con quella rossonera, solo tre con quella giallorossa, ma Roma gli entrò subito nel cuore, conquistato dalla passionalità dei tifosi, dalla bellezza della città, da Alessandra poi diventata sua moglie con cui ha avuto tre figlie, Consuelo, Desirée e Matilde.
Una volta smesso di prendere a calci il pallone, rimase in quello che è sempre stato il suo mondo pur capendolo e condividendolo poco, intraprendendo la carriera di allenatore, all’inizio con le giovanili della Roma (è stato uno dei primissimi tecnici di Francesco Totti), poi qualche esperienza minore, un’avventura in Grecia con il Panionos come direttore tecnico per poi tornare a rifugiarsi a Fregene dove aveva scelto di vivere con la famiglia, affascinato dall’infinito del mare, dai silenzi di un piccolo comune che solo d’estate accende i riflettori. E’ sempre stato in contatto con la società Roma, ve lo ricordate alla festa degli ottanta anni?, con i suoi vecchi compagni dello scudetto giallorosso, con una tifoseria, almeno quella dai quaranta in su, che non lo ha mai dimenticato e che, ancora oggi, maledice quella squalifica che lo costrinse a guardare la finale di Coppa dei Campioni contro il Liverpool all’Olimpico, lui, Aldo, rigorista più che affidabile anche se con la Roma non li tirava perché prima di lui c’era un certo Agostino Di Bartolomei. (…)
Ciao e grazie Aldo. E ovunque tu sia, salutaci Ago e il Barone.
Comments are closed.