IL MESSAGGERO (A. ANGELONI) – Piove, non smette mica. Dici: le lacrime si confondono nella pioggia. Beh, sai che consolazione. Daniele va oltre: sorride, non piange. Lo avrà fatto, magari, quando c’era il sole, giorni fa, senza che fosse necessario nasconderle. Lui è sereno, sorride guardando la marea di gente lì, tutta per lui; sorride incrociando lo sguardo della moglie Sarah, e dei suoi tre figli, Gaia, Olivia e Noah, lì nel sottopassaggio. Sorride e pensa che questa notte è quella dei saluti, o come dice lui, di un banale arrivederci. Di non banale c’è la sua carriera, come quella di Totti, un atto di amore per la Roma, che adesso ha deciso di fare a meno di lui. Del suo essere un uomo pesante per lo spogliatoio e per la città, dei suoi acciacchi. Del suo futuro, che per la Roma non c’è, mentre per lui sì. È destino: ogni addio viene infilato in una contestazione e ogni eroe convive con il suo antagonista. C’era Spalletti contro Totti, c’è Pallotta contro De Rossi. Tesi e antitesi. Sempre.
LA SUD – «Ci hai rappresentato in campo per diciotto anni, da oggi la tua curva ti rappresenterà per sempre. Siamo tutti DDR». Ecco, i tifosi davanti ai quali Daniele si è inginocchiato baciando terra. Quelli sono schierati, tutti con lui e queste parole esposte ad inizio partita ne sono la testimonianza. Per la gente «De Rossi è il romanismo». Che ora in tanti vedono come un problema, non con un valore. Un valore oltre le vittorie, che da queste parti scarseggiano, sono utopie. Ecco perché ci si attacca ai simboli, quelli che si tingono di giallo e rosso. Totti, appunto, De Rossi inevitabilmente, e Ranieri, omaggiato dalla Sud con cori e striscioni, procurando la reazione in lacrime del tecnico quasi settantenne. Un altro che va via piangendo. Daniele gioca, ma forse nemmeno se ne accorge: troppo preso da chi gli sta intorno, dagli applausi a ogni pallone che tocca, a ogni tackle, a ogni cambio di gioco. È preso dal suo popolo, dagli amici del 1983 con cui ha condiviso la maglia della Primavera della Roma. Tutti presenti allo stadio. Come gli amici campioni del mondo, Buffon e Materazzi, come i suoi fedeli compagni di vita, sconosciuti al grande pubblico. «Nei giorni belli e tristi sei stato la bandiera dei veri romanisti», un altro dei tanti striscioni a lui dedicati. E ancora: «Passione, cuore amore. Sei tu il nostro tricolore».
COMMOZIONE – Quel tricolore che Daniele non è mai riuscito a raggiungere con la Roma. Perché nel 2001 non era nemmeno diciottenne. E diciotto sono gli anni nella Roma, culminati con l’ultima festa, con l’ultima vittoria. Con l’ultima standing ovation, quando Ranieri lo richiama in panchina al minuto numero 80. Esce con la fascia della Lega al braccio – non la sua – che consegna a Florenzi. L’Olimpico in piedi, lo onorano gli avversari, tutti i compagni, che gli dedicano un saluto e l’immancabile abbraccio. Ci mette un minuto e mezzo per raggiungere la panchina. Poi, la festa, se così si può chiamare. Gli occhi, stavolta sì, cominciano a luccicare. Si scioglie il gladiatore, ovvio. E non solo lui. Sullo schermo scorrono i suoi gol, Totti e Bruno Conti lo aspettano in campo, con tutti i giocatori, che indossano la 16. Baci, uno per uno. L’esplosione di emozioni, nell’abbraccio prima con Francesco e poi con Bruno. Tre generazioni di campioni. Una medaglia romanista con tre facce. Sorrisi e lacrime, giro di campo, sipario. Arrivederci, Daniele.