LA REPUBBLICA (L. D’ALBERGO – L. MONACO) – Per un giorno la capitale pallonara ha smesso di affannarsi dietro al calciomercato, al totoallenatore, al «famo ‘sto stadio». Ma che importa della Champions, dell’Europa. Riflettori puntati su Daniele De Rossi. Sul biondo di Ostia che per anni è stato «Capitan futuro». Un eroe in perenne attesa della fascia di Francesco Totti che, dopo solo due anni al timone, va già riposto nel cassetto. Giù lacrime per ogni video sui social, mai tanto beffardi: la vena sul collo del gladiatore, il rigore nella remuntada al Barcellona, le Coppe Italia e la Supercoppa, le corse sotto la Sud, il mondiale con gli Azzurri, i derby, quelle espulsioni evitabili ma genuine, la barba che un tempo non c’era e il tatuaggio sul polpaccio. Un segnale stradale inequivocabile: «Attenzione, scivolate in arrivo». Ecco. L’ultimo tackle, davanti al resto della squadra, De Rossi lo ha condito con parole pesanti. Sconvolgenti per i meccanismi della Roma e di Roma. L’addio stavolta è indigesto. Quello di Totti, seppur imputato ai litigi con l’ex mister Spalletti, è stato metabolizzato. Troppi 40 anni per continuare a stupire. Il saluto di De Rossi, invece, è uno schiaffo. È la privazione inattesa del simbolo. La bandiera che, senza un perché, smette di sventolare. Peraltro nel nome di una rivoluzione a cui ha già detto «no» Antonio Conte, stracorteggiato big della panchina. Inevitabile effetto del commiato, la presa di coscienza collettiva. Il tifo giallorosso, forse mai tanto compatto, chiede trofei. E, siccome i titoli non sono mai arrivati con la gestione americana di James Pallotta, fino a ieri si era accontentato del trofeo della romanità: «De Rossi il nostro vanto». Ora il petto è sgonfio. Certo, in rosa ci sono Florenzi e Pellegrini, romani e romanisti. Ma anche la forza dei numeri e della cabala. “Danielino” si ritirerà il 26 maggio contro il Parma: la data è la stessa della finale di Coppa Italia persa contro la Lazio nel 2013 e l’avversario lo stesso di uno scudetto lontano 18 anni. Gli stessi che De Rossi ha passato in giallorosso. Ora il conto si azzera, con i romanisti costretti a un’eterna pubertà emotiva e calcistica. Sempiterni adolescenti, gli ultrà sono confusi. Hanno convocato un sit in a Trigoria per sabato mattina. Ma la squadra sarà in Emilia, per la sfida con il Sassuolo, e gli uffici della società sono all’Eur. I dirigenti, appunto. A loro quest’anno si concede solo la vittoria del nocciolinaro cacciato e poi riammesso in curva. Perché l’annata è stata la peggiore dell’era statunitense: nel giro di un anno la Roma è passata dalla semifinale di Champions al congedo del guerriero. Che non smetterà, perché a 35 anni si sente ancora calciatore. Non colletto bianco come avrebbe voluto il club. Andrà al Boca di Maradona? Si sta preparando a un paradossale finale americano? Si vedrà. De Rossi, concentrato di passione giallorossa con un papà mister della primavera, per i tifosi resta un modello. I primi calci sulla spiaggia, la fama, il privilegio di difendere i colori della sua città. E poi la vita privata di un mediano speciale, rimasto uomo normale: i figli, il travagliato matrimonio con Tamara Pisnoli, nome finito a più riprese sulle cronache giudiziarie, l’amore con l’attrice Sarah Felberbaum. Un incontro decisivo per il salto in quella maturità che per tanti dei suoi tifosi adesso è un miraggio. Il distacco fa male, risveglia gli istinti di chi aspetta stadio e vittorie da dieci anni. Tutto fermo, tranne le vele sangue e oro. Ammainata quella di Totti, sotto con De Rossi. Per Giovanni Malagò, numero uno del Coni, DDR resterà «un gigante». In suo nome il romanistissimo Valerio Mastandrea propone «una festa in ogni quartiere». Alessandro Gassmann rilancia: «Una ogni anno». Magari, dicono i tifosi, dopo aver fatto «calare il sipario su questa società». Senza bandiere, arriveranno gli striscioni. E una contestazione che pare già scritta.