IL ROMANISTA (M. IZZI) – Guardo Di Benedetto e Totti e penso, istintivamente, a Italo Foschi e Attilio Ferraris, quattro personaggi, quattro volti e 84 anni di storia, emozioni, dolori e rapporti tra i capitani e i presidenti giallorossi. Tutto iniziò, lo abbiamo detto, con Attilio Ferraris e Italo Foschi.
Un rapporto filiale tra i due, con i ruoli ben definiti tra un figlio scapestrato che ne combina di tutti i colori (Attilio) e un padre saggio (Foschi), che cerca in tutti i modi di tirare fuori dai guai il rampollo. Nei dieci mesi (da giugno 1927 marzo 1928) in cui Foschi ha esercitato il ruolo di massimo dirigente dell’A.S. Roma, Ferraris era arrivato a chiedere due stipendi anticipati. Un bel giorno si presentò davanti al Presidente per dirgli: «Mi anticipa uno stipendio?». Quando Foschi gli ricordò che ne aveva avuti già due, Attilio replicò fermo: «E allora famo tre». Non sappiamo se la richiesta fu esaudita, quello che è certo, è che il rapporto fra Attilio e Renato Sacerdoti, non fu ugualmente sereno. Il “Sor Renato”, come è noto, si spinse sino a metterlo fuori rosa, innescando la vicenda che avrebbe portato al clamoroso trasferimento del Campione del Mondo alla Lazio. Ebbene Italo Foschi, che in quel periodo era sul punto di assumere la responsabilità della Prefettura di Taranto, quando seppe che Ferraris stava per essere messo fuori rosa, ottenne di partecipare al Consiglio Direttivo del Club e fece mettere a verbale che chiedeva: «di non prendere provvedimento alcuno contro Ferraris Attilio, fino a che l’ Eccellenza Foschi non abbia potuto parlare con il giocatore». Tra padre e figlio, però, si sa, oltre al grande affetto ci sono sempre degli scontri tremendi.
E’ il caso del rapporto tra Dino Viola e Agostino Di Bartolomei. Intenso come pochi, che subì un colpo durissimo nel 1984. “Ago” visse il mancato rinnovo del contratto come un’ingiustizia inaccettabile. L’incontro più drammatico tra i due avvenne a Trigoria, nella mattinata del 1 giugno 1984. Solo chi ha vissuto quei momenti può immaginare quanto tremendi siano stati. La sconfitta nella finale di Coppa dei Campioni, meno di 40 ore prima, ci aveva semplicemente devastati. Si era arrivati troppo vicini alla meta per rassegnarsi. Era come se alla missione dell’Apollo 11 fosse stato ordinato di rientrare sulla terra, senza permettere a Neil Armstrong di posare il piede sulla luna: «11 metri per un calcio di rigore, ma una distanza che rimaneva infinita per ogni romanista». Quel giorno, Dino Viola e Agostino Di Bartolomei (lui si, quegli 11 metri li aveva attraversati … lui si, poteva raccontare agli umani cosa significava toccare la Coppa dei Campioni) s’incontrarono con il cuore spezzato. Tutti i giornalisti presenti seguirono la scena. Viola si avvicinò al suo capitano e gli disse: «La tua prestazione è piaciuta a tutti, anche a noi». La risposta di “Ago” sembrava l’innesco di una bomba: «L’importante è che piaccia a me». Viola lo prese sotto braccio e si allontanò con lui, ma per la riconciliazione, sarebbe mancato iltempo.
Tra le tante vicende di cui potremmo parlare, veramente unica è quella del legame di parentela che si creò tra Alvaro Marchini e Francesco Cordova, che ne aveva sposato la figlia Simona. Anche dopo l’addio di Marchini alla presidenza giallorossa, “Ciccio” continuò ad essere identificato con la passata gestione. Anzalone non lo “vedeva” e il capitano finì fuori rosa. Dopo l’inizio disastroso del campionato 74/75, però, si cominciò a parlare di un suo reintegro. Cordova si recò da Marchini a chiedere consiglio: «Parla con Anzalone – gli disse Marchini – (…) digli che la facciano finita con quelle accuse malevoli e ti chiedano scusa per quello che hanno fatto. Allora potrai riprendere a giocare con serenità (…). Conosco molto bene Cordova « prosegue Marchini – e so quanta bontà alberghi nel suo animo, ma non avrei mai immaginato che questa bontà giungesse a fargli rinunciare al suo amor proprio ed alla sua dignità (…). Si dirà ma a te che ti frega? Eh no, in definitiva Cordova non è soltanto un tesserato della Roma, ma anche (scusate la sottigliezza), il marito di mia figlia, ed è quindi legittima la mia presunzione di avere per genero un uomo che si dimostri tale»« prosegue Marchini – e so quanta bontà alberghi nel suo animo, ma non avrei mai immaginato che questa bontà giungesse a fargli rinunciare al suo amor proprio ed alla sua dignità (…). Si dirà ma a te che ti frega? Eh no, in definitiva Cordova non è soltanto un tesserato della Roma, ma anche (scusate la sottigliezza), il marito di mia figlia, ed è quindi legittima la mia presunzione di avere per genero un uomo che si dimostri tale». In sostanza, Marchini non aveva perdonato a “Ciccio” di aver accettato, in cambio del reintegro, di subire un “rimprovero pubblico e una lieve multa (che non avrebbe mai pagato)”.
Lasciamo questa saga familiare degli anni 70 e cambiamo pagina, pur rimanendo, almeno in parte, su Alvaro Marchini. Abbiamo già dimostrato come “un capitano è per sempre”, ma anche che l’equilibrio che si cerca con il presidente non è mai facile. Sia Alvaro Marchini che Dino Viola, ad esempio, ebbero la possibilità di riportare a “casa”, uno dei più grandi capitani della storia della Roma, Fulvio Bernardini, in veste d’allenatore. Marchini si recò addirittura a casa di “Fuffo”, a Via Nemea, e al termine di quell’incontro, Bernardini festeggiò con la famiglia il ritorno alla Roma, parlando dei grandi piani che aveva in mente per regalare lo scudetto al grande amore della sua vita. Alla fine, però, non se ne fece nulla Anche Viola, all’inizio di giugno 1979, dichiarò che riportare Bernardini alla Roma, era stato il suo primo pensiero da presidente: «Come ponte che possa unire il presente, al passato. Chi meglio di lui?». Questa volta, Fulvio, scottato dall’esperienza vissuta, fu molto cauto, dichiarò che prima di commentare la notizia che gli veniva riportata da fonti giornalistiche, preferiva parlare direttamente con il presidente. E la cautela, fu più che giustificata, visto che del ritorno del “grande capitano”, anche in questa occasione, non se ne fece nulla. Viola, poi, in una di quelle reazioni “sovraumane” di cui era capace, al momento della morte di quello che era stato l’idolo della sua infanzia, gl’intesto il Centro Sportivo di Trigoria e Dio solo sa cosa deve essergli costato non intitolarlo alla memoria dell’amatissimo fratello Ettore Viola.
In questo contesto, riflettere su quello che è stata la forza e la concretezza del rapporto tra Franco Sensi e Francesco Tottiè ancora più produttivo. L’incontro tra Sensi e Totti è stato unico e irripetibile, consumato tra due romani, come mai era accaduto prima. Una chimica scattata da subito, e in un modo tutt’altro che scontato, anche perché, lo stesso Sensi, ad esempio, non aveva avuto feeling con Giuseppe Giannini e anche la ragione profonda di quello stato di cose è difficile, se non impossibile, da decifrare. Sensi non ha mai creduto alla storia del “figlio maschio”, aveva troppo rispetto dei rapporti familiari per potersi abbandonare a considerazioni di quel tipo, ma ha dimostrato con i fatti, non solo di voler bene a Francesco, ma di mettere in conto il rischio di essere oscurato dalla sua popolarità, immensa, pur di tenerlo in giallorosso. Sensi non ha mai esitato, non ha mai preso in considerazione l’idea di privare la città di Roma del suo simbolo. Persino quando Francesco, per stimolare l’ambiente a crescere, faceva adombrare l’idea di poter andare via dalla Roma , la risposta del presidente era sempre categorica: «Va via Totti? E n’do va? Fino a che ci sono io questo non accadrà mai». E avrebbe potuto concludere con le parole e il volto indurito messe in bocca da John Ford all’Ethan di “Sentieri Selvaggi”: «Questo è sicuro come il sorgere del sole».