R. BECCANTINI – Nella mia griglia estiva la Roma figurava al quarto posto. Oggi, dopo 23 giornate, è ottava. Succede di sbagliare pronostico, succede che te lo facciano sbagliare (alibi). Ciò premesso, non licenzierei mai un allenatore in corso d’opera. Nemmeno Zdenek Zeman. Scusate: perché Zeman sì e i dirigenti che lo reclutarono no? Franco Baldini e Walter Sabatini l’hanno sfangata anche stavolta. Sabatini è quel genio che, dopo il 3-3 di Bologna, convocò i giornalisti e spiegò loro che «stiamo valutando l’esonero ». Non l’annuncio di un fatto; l’ipotesi di un annuncio.
Da lunedì 28 gennaio a venerdì 1˚ febbraio, sera di Roma-Cagliari sappiamo tutti com’è finita (e dov’è finito il «progetto»). Con Zeman è difficile restare sereni. Il calcio, gli eccessi, le crociate: al diavolo le mezze misure e le mezze stagioni. Quando a Firenze, in Coppa Italia, sfoderò una pudìca difesa a tre, ci demmo dei pizzicotti: possibile? La Roma vinse 1-0, ai supplementari, e si qualificò per le semifinali. Zeman Usa e getta, dunque. Come se Baldini e Sabatini ne potessero ignorare il catechismo. Dall’utopia orizzontale di Luis Enrique, che non seppe resistere alle pressioni ambientali, all’eresìa verticale del boemo, che non ha saputo domarle, sfamarle. Urge l’ennesima svolta, serve un’altra rifondazione.
L’allenatore è pagato per pagare. Ne sono già saltati dieci, in questo campionato: nove esonerati, uno dimissionario (Giovanni Stroppa). Enrico Preziosi, il padre-padrone-padrino che ogni tanto parla di etica, proprio lui, ne ha scaricati due, addirittura: Gigi De Canio e Gigi Delneri. Davide Ballardini potrebbe essere quello giusto. Geloso e non meno cannibale, Maurizio Zamparini, a Palermo, ha replicato colpo su colpo: da Giuseppe Sannino a Gian Piero Gasperini, ad Alberto Malesani (auguri). Tutti i tecnici hanno un proprio stile, ci mancherebbe: più o meno coerente, più omeno versatile. Non Zeman. O meglio: con Zeman non si può sbagliare, Zeman allena da sempre allo stesso modo, 4-3-3 e «più non dimandare », il miglior attacco corrisponde spesso alla peggior difesa, o a una delle più bucate. Ha preso il Pescara, in serie B, e l’ha portato di peso in serie A. Aveva Lorenzo Insigne, Ciro Immobile e Marco Verratti: li ha plasmati e valorizzati. Chi non scrisse «ha riaperto Zemanlandia » alzi la mano.
Ha fatto il suo tempo, e potrà ritrovarlo solo in periferia, lontano da piazze troppo isteriche, troppo invasive. Per questo, non giustifico le attenuanti generiche concesse a Baldini e Sabatini. Gli errori di Zeman — dai compromessi di mercato al caso De Rossi, alla scelta del portiere—sono fuori discussione: in discussione sono coloro che, a inizio stagione, fissarono il futuro societario a un’operazione così spericolata, salvo poi smarcarsi vigliaccamente non appena la classifica si è messa a piangere, e la curva a strillare. Zeman è un dogma scolpito: «Non avrai altro schema all’infuori di me». Soltanto nella lotta al marcio è sceso a patti: Antonio Giraudo e Luciano Moggi sì; tutti gli altri «santi dipinti», da Franco Carraro in giù, no (o molto meno). Baldini e Sabatini sono ancora lì, al loro posto. Come se Zeman avesse fatto cose dell’altro mondo, e non, semplicemente, del «suo» mondo.