LA REPUBBLICA (B. FERRARA / M. PINCI) – Non è stata la prima volta, di certo è stata la più imbarazzante. Un altro 7-1, un’altra figuraccia, anche se davanti non c’erano né il Manchester di Ferguson né il Bayern di Guardiola: la Roma di Di Francesco è precipitata ieri, a Firenze, travolta dai sette gol della Fiorentina, dalla tripletta di Federico Chiesa, che nel 2019 ha già segnato 7 gol in 4 partite, dal quarto gol di Muriel in quattro incontri con la maglia viola.
C’erano in tribuna i volti atterriti di Francesco Totti e del ds Monchi, il presidente americano Pallotta era invece davanti alla tv a migliaia di chilometri dal Franchi. Lascerà proprio a Monchi («Chiedete a lui») il peso della decisione che determinerà il futuro a breve termine della Roma: cambiare o meno l’allenatore. «Il giorno più difficile nella mia carriera di direttore sportivo», diceva Monchi cercando la forza per perseguire la propria idea: «L’allenatore non rischia, se qualcuno è in discussione è il direttore sportivo che ha fatto la squadra, ma non so cosa sarà domani». Di Francesco si scusava per la «prestazione vergognosa» ma non si dimetterà.
Quella di ieri è stata comunque una notte di riflessioni per i dirigenti. Da una parte la linea conservativa del ds spagnolo. Dall’altra quella interventista del consulente ombra di Pallotta, Franco Baldini, che avrebbe seduto Paulo Sousa sulla panchina romanista già a settembre. E pure a Trigoria c’è chi capisce che da un tracollo così si debba uscire con un segnale di discontinuità. Che non passerà per nuovi acquisti: dopo il naufragio del mercato estivo – anche ieri Pastore, Kluivert e Nzonzi sono stati bocciati senza appello dal campo – quello di gennaio chiuderà oggi senza novità.
Non potendo cambiare calciatori, l’idea di mettere mano alla panchina resta in ballo, anche se per la dirigenza i responsabili sono sempre i calciatori. Pure Di Francesco, che 7 gol li prese due volte dall’Inter ai tempi in cui guidava il Sassuolo, aveva puntato l’indice contro la squadra dopo la rimonta subita a Bergamo. «Mi fa diventare matto», disse, e ieri ci è ricascato, pensando più a difendere se stesso che i calciatori: «Quando la squadra è rinata ero sempre io l’allenatore, poi quando si perde così uno si fa tante domande per capire, pur avendo difficoltà a darsi delle risposte».
Insomma, un’altra accusa velata all’atteggiamento della squadra. Che mostra segni di insofferenza, se Dzeko riesce nella stessa partita a mandare a quel paese il timido Cristante e poi a farsi cacciare per una protesta sciocca che a molti, ma non all’arbitro Manganiello, era parso uno sputo. E se Kolarov dimostra ampiamente in campo – e nonostante il gol – un atteggiamento praticamente rassegnato di fronte al modo di difendere. Inevitabile finire per farsi delle domande sulla popolarità del tecnico nello spogliatoio. Anche se in ritardo: nel 2015/16, Rudi Garcia fu risparmiato a dicembre dopo una figuraccia in Coppa Italia con lo Spezia per poi finire esonerato a gennaio. Con Di Francesco la Roma ha scelto ancora la strada della pazienza: ma anche a Trigoria inizia a circolare la percezione di un accanimento terapeutico. I fantasmi dei 7-1 passati – Manchester nel 2007, il Bayern nel 2014 – non rendono meno pesante la situazione attuale: bisogna solo capire chi avrà voglia di decidere. E domenica arriva il Milan di Piatek