“Annuntio Vobis, gaudium magnum” la Roma non è morta. E’ ancora viva, tramortita, forse, per il duro colpo subito a Torino, ma è viva, deve esserlo. C’è delusione sì e non potrebbe essere altrimenti per l’ennesima debacle allo Juventus Stadium (la settima consecutiva su sette incontri da quando è stato eretto il nuovo impianto sulle ceneri del vecchio Delle Alpi) scoramento certo, dispiacere più che comprensibile, soprattutto in seno a chi legittimamente ambiva e sperava di riaprire, in caso di successo, le sorti di questo campionato, ma il catastrofismo di parte del famigerato “ambiente romano” appare quanto mai esagerato per una squadra che, era reduce da due vittorie fondamentali contro Lazio e Milan e che da quando è tornato Spalletti ha messo insieme la bellezza di 81 punti in 35 partite.
Inutile ricordare che la Juventus con oltre 400 milioni di fatturato e una campagna acquisti faraonica, impreziosita dal “ratto” di Higuain al Napoli (seconda forza dello scorso campionato) e l’acquisto di Pjanic dalla Roma (terza in classifica dell’ultima serie A), dopo cinque Scudetti consecutivi aveva i favori del pronostico e di fatto anche nel big match di Torino, ha dimostrato la sua superiorità. Una superiorità in parte tecnica, dettata da una rosa di 25 calciatori dello stesso livello, nella quale è quasi impossibile delineare il confine tra titolari e riserve, certamente di ferocia agonistica e mentalità (termine quest’ultimo un pochino abusato nella Capitale e in generale nel gergo calcistico nazionale, spesso di difficile rappresentazione pratica) ma non una superiorità schiacciante.
La Roma agli occhi di scrive e che ha avuto la malsana idea di rivedere il match, spinto da uno spirito decisamente autolesionistico ma propedeutico alla stesura di un pensiero onesto e obiettivo, non ha disputato la peggior partita della sua storia, tanto meno di questo campionato, anzi.
Dopo un incipit di gara in cui la pressione dello Stadium incarnata dagli undici bianconeri (e reduci non a caso da 24 successi consecutivi tra le mura amiche) e il gol di Higuain, scaturito da una giocata da fenomeno ma anche da una serie di errori a catena commessi da De Rossi prima e dal duo Fazio-Manolas poi, sembravano poter fare la differenza in maniera netta e inoppugnabile, la Roma ha acceso – forse tardivamente – il proprio motore, alzando il livello del pressing, chiudendo per buona parte della ripresa la Juventus nella propria metà campo e tenendo in mano costantemente il pallino del gioco (possesso palla finale 63 % Roma 37% Juve). E’ vero, Szczesny ha tenuto in piedi il match fino all’ultimo secondo, sfoderando due interventi da campione su Sturaro, ma non può essere certo una diminutio avere tra i pali un portiere di assoluto livello, lautamente pagato per svolgere al meglio il suo compito, cioè parare, anche quei tiri che appaiono imparabili agli occhi dei più.
Individuare un’unica motivazione o un unico colpevole della sconfitta di sabato sera, è un esercizio proprio di chi vive costantemente alla ricerca del capro espiatorio da immolare sulla pubblica piazza.
La crocifissione di Luciano Spalletti per l’ardita scelta di Gerson dal 1′ minuto era preventivabile già alla lettura delle formazioni iniziali, ma la riflessione sorge spontanea: la Roma perde contro la Juve perchè Spalletti in preda ad un attacco di fenomenite sceglie il giovane e acerbo brasiliano, oppure perchè la squadra giallorossa, già sulla carta non superiore ai bianconeri, non riesce a concretizzare una serie di chance, magari non straordinariamente nitide, ma frutto di un forcing per lo meno efficace fino ai sedici metri, mostrando un generale grado di immaturità in certi confronti?
Gerson – sul quale pesano e peseranno per sempre quei 18 milioni di euro circa spesi per il suo acquisto – nel primo tempo non gioca una partita strabiliante, è apparso a volte impacciato, ma in qualche modo è riuscito comunque a svolgere il compito tattivo affidatogli dall’allenatore: contenere le sfuriate offensive di Alex Sandro, uno dei migliori terzini sinistri del mondo, che nella prima frazione non è mai arrivato all’altezza dell’area di rigore e caso strano, o forse no, è invece apparso magicamente in partita solo nella ripresa quando dalla sua parte il redivivo Salah gli ha concesso, gioco forza per caratteristiche, una ventina di metri in più di spazio per sprigionare la sua corsa.
“L’ha persa Spalletti… ha voluto fare il fenomeno… Gerson non può giocare a questi livelli… doveva schierare El Shaarawy o Salah dall’inizio” urla la vulgata giallorossa tramite i social e nelle radio. Possibile, probabile, magari il risultato sarebbe stato diverso, ma chi ha la controprova? Con Gerson o senza Gerson, nella madre di tutte le partite, nel match che avrebbe potuto ridefinire i contorni e lo sviluppo di un campionato che appare oggi già scontato nel suo epilogo finale, ci si sarebbe aspettato in primis un atteggiamento diverso, una voglia diversa, una concentrazione e una rabbia agonistica diverse da parte di quei calciatori importanti della Roma, come Manolas, De Rossi, Perotti e Dzeko per citarne solo alcuni, che oggettivamente non hanno disputato la loro miglior partita in carriera. Il calcio è una materia opinabile e affascinante proprio per questo, ma forse l’insana e spesso vacua ricerca del colpevole da immolare, placa di più gli animi rispetto ad una visione d’insieme che pone un’intera squadra, compresi i subentranti, compreso l’allenatore di fronte al dolore e alla responsabilità tout court di una sconfitta, con l’obbligo categorico però di rialzarsi e mostrare il proprio valore, già in parte ma non del tutto evidenziato finora, fino alla fine del torneo, senza ingiustificati crolli o inverosimili periodi di buio calcisticio, come quelli degli ultimi due inverni. Per rispetto di una tifoseria che da troppo tempo attende di tornare a festeggiare un trofeo, qualunque esso sia e anche di chi oggi, in maniera forse esagerata con altri sei mesi di stagione davanti, sta recitando anticipatamente il requiem giallorosso.