FOCUS CGR – “In alcune religioni, specialmente quelle pagane, l’offerta della vittima alla divinità, per renderle onore o propiziarla: fare, compiere un s.; s. espiatorio, propiziatorio; anche, la cerimonia in cui l’offerta si compie…” Il vocabolario della lingua italiana descrive così in prima analisi il termine “sacrificio”. Poi in secondo luogo: “Qualsiasi privazione o rinuncia deliberatamente affrontata o subita per necessità”. Un termine unico che racchiude però sfumature diverse, specie se applicato al contenuto della partita disputata ieri dalla Roma a Bergamo. Non è vero che la Roma ha giocato una gara vuota ieri allo stadio Atleti Azzurri d’Italia, ma piena zeppa di contenuti. Non spettacolare, non esaltante sul piano del gioco, non straordinaria per dominio tecnico, ma una partita piena di sacrificio quello si, nel rincorrere gli avversari, nella ricerca di un gioco che evidentemente non può essere ancora fluido come vuole il tecnico, nel saper soffrire nel finale stringendo i denti e strappando tre punti fondamentali.
Dal generale al particolare il “sacrificio”, nella sua prima accezione, è facile rinvenirlo (sempre in maniera puramente metaforica) in occasione del gol di Kolarov: ex laziale, autore di una rete nel derby con la maglia “di quegli altri”, ma mai totalmente icona del pubblico biancoceleste (il distacco assoluto si consumò quando il serbo si dissociò dall’atteggiamento antisportivo della sua squadra e del pubblico in occasione del famoso Lazio-Inter stagione 2009-2010). Ieri pomeriggio Kolarov ha offerto al Dio del calcio la sua astuzia, la sua qualità tecnica, la sua capacità balistica, realizzando un gol decisivo, pesantissimo, che in pochi istanti ha spazzato via tutte o quasi le remore della tifoseria giallorossa, che in parte non aveva digerito l’arrivo di un ex laziale. Giocatore d’esperienza, fisicamente impetuoso, leader in campo nel richiamare i compagni, un salto di qualità assoluto se si pensa ai vari Mario Rui, Josè Angel, Holebas, Dodò e compagnia (poco) cantante e quelle braccia aperte verso il settore ospiti, come a dire: “eccomi, sono qua, adesso sono degno di indossare questa maglia?”. Un’abluzione calcistica per una purificazione che sa di nuovo inizio.
Nessuna esaltazione certo: la Roma rispetto alle altre grandi (Juventus e Napoli in primis, le due milanesi in seconda fila) è apparsa la squadra più in difficoltà, ma è altrettanto evidente il livello di difficoltà dell’avversario (l’Atalanta dei miracoli di Gasperini) affrontato dai giallorossi rispetto al Crotone, l’Hellas, il Cagliari e alla Fiorentina ridimensionata. C’è da lavorare, c’è da migliorare, ma ci teniamo stretti non solo il carattere, l’orgoglio, l’abnegazione e lo spirito di “sacrificio” (nella sua seconda accezione sovracitata) ma soprattutto la vittoria che pesa come un mattone scagliato contro quella coltre di diffidenza, mestizia, aspra critica che già avvolgeva Eusebio Di Francesco per una mezzora sbagliata a Vigo in un’amichevole di mezza estate. Un “de profundis” intonato troppo in fretta, ma la Roma è viva e ha iniziato con il piede giusto. Ora l’Inter dell’amato-odiato Spalletti, da affrontare con “sacrificio” e qualche qualità in più…