Alex Infascelli, regista, ha rilasciato un’intervista a La Repubblica in vista dell’uscita di “Mi chiamo Francesco Totti”. Queste le sue parole:
Cosa rappresenta per lei questo film?
L’occasione per raccontare la mia città, la mia gente e la storia di un uomo che ha ispirato la nostra vita per tantissimo tempo.
Il cuore del film è nato in una stanza: un divano, una lampada, due biscotti e un microfono nascosto…
Sì, Francesco nei nostri incontri si è sentito in uno spazio protetto, senza video, social, i minuti scanditi ma con tutto il tempo per raccontarsi e lui ha capito e saputo sfruttare l’occasione nel senso più nobile: ha fatto sì che fosse un evento irripetibile e mi ha regalato forse il mio film più bello.
E’ un film per tutti, non solo per chi è tifoso di calcio o della Roma…
Noi entriamo dalla porta d’ingresso della vita di Francesco ma di fatto osserviamo quello che è la vita per tutti noi. Poi noi romani abbiamo una corrispondenza maggiore con certi luoghi e certi modi di vedere la vita, ma l’universalità è indubbia perché il racconto di Francesco è talmente generoso e ampio che arriva a tutti.
L’immagine insieme che le resta?
Quei momenti in cui noi due sul divano facevamo una piccola pausa, restando in silenzio per conservare le cose da dire alla ripartenza del nastro. Ci sorridevamo e mangiavamo il biscotto, sentivamo che questo momento insieme avrebbe lasciato il segno.
Cosa l’ha sorpresa di lui?
La totale assenza di ego, incredibile come una persona che potrebbe essere gonfiata come un pallone per l’idolatria che riceve da quando ha 17 anni sia cosciente di appartenere a tutti. E quanto abbia conservato invece una dimensione come Francesco che è solo di familiari e amici. Ha saputo tirare una linea tra queste due cose e farle convivere.