Una parola magica: motivazione. Troppo superiore l’Inter e troppa di più la sua voglia di vincere rispetto a quella della Roma, che guarda la classifica con occhi stanchi rispetto all’avversaria capolista che insegue il traguardo scudetto. La Roma aveva la testa alla semifinale di Conference contro il Leicester, lì a un passo, ha fatto poco a San Siro, evaporando subito.
Simone Inzaghi con questo successo avanza a grandi passi verso il titolo della stella, che non è roba da poco: ora è padrone del suo destino. Motivazione, appunto. Quella che move il sole e le altre stelle, il traino al dà dei valori in campo, comunque troppo sbilanciati dalla parte dell’Inter, che non a caso in questa stagione ha sconfitto per tre volte la Roma e sempre nettamente (3-0 all’Olimpico, 2-0 in Coppa Italia), almeno nel risultato. Se Mourinho doveva essere l’arbitro dello scudetto, per ora ha votato Inter, il suo ex amore. E ora, classifica alla mano, si deve guardare da Lazio e Fiorentina per il quinto-sesto posto. Eppure la Roma non è venuta a Milano per fare regali. Con la scelta di puntare su ElSha e non su Veretout (al posto di Cristante), mostra un certo coraggio Mourinho, sempre osannato dai suoi ex tifosi prima del fischio e dopo il terzo gol. Il centrocampo gira lento, Oliveira è tosto ma poco dinamico, Mkhitaryan non è a mille. Ci sta che spesso si corra a vuoto a inseguire l’indemoniato Barella, Calhanoglu e Perisic, che di fatto sono i tre registi dell’Inter, oltre a quello vero (e che partitona), Brozovic.
La Roma cerca il palleggio, in porta arriva poco, ma non soffre troppo in avvio. Calhanoglu scalda le mani a Rui Patricio, che respinge come può, non benissimo, ma la porta è salva. La partita, di fatto, comincia lì per l’Inter e lì finisce per la Roma, con quello schiaffo, dopo una mezzoretta di studio, unica fase in cui i giallorossi – a parte la reazione d’orgoglio nei minuti finali – son stati davvero in partita, dando anche buone sensazioni, come a Napoli. Come scrive il Messaggero, Mancini rischia il gol, con un colpo di testa e poi è monologo nerazzurro, che in dieci minuti ne fa due. Calhanoglu imbuca Dumfires, mentre la difesa della Roma si apre come un portone, e fa secco Rui Patricio, con un tiro in solitaria; poi Pellegrini perde un pallone sulla trequarti (e reclama fallo), ne nasce un contropiede fulminante: due tocchi e Brozovic scaglia un tiro che finisce all’incrocio. Non c’è tempo per reagire, l’intervallo fa evaporare quel poco di Roma che si era intravisto nella prima parte di gara. Si torna in campo e Lautaro fa tris, in mischia con un colpo di testa, sovrastando tutti.
Inzaghi vede il traguardo vicino e toglie Brozovic, mossa che di solito non fa mai, e Dzeko, pensando al recupero con il Bologna e al rush finale. Mourinho risparmia minuti a Pellegrini, Zalewski e Abraham, troppo vicino è il Leicester e troppo lontana ormai è l’Inter. La Roma perde male, contro una squadra più forte, ma mostra comunque – seppur a sprazzi – quello spirito che le ha consentito di rialzare la testa nella seconda parte della stagione e l’ha portata a giocarsi una semifinale di Conference.
Nel finale riesce a segnare anche un gol (l’unico nelle tre sfide stagionali), con Micki, ma ormai è troppo tardi, la partita è al tramonto. Finisce l’imbattibilità dei giallorossi in campionato, che durava da dodici partite.