L’incubo della terza delusione

L’incubo della terza delusione

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IL MESSAGGERO – A. ANGELONI – Bruciato, ferito per la terza volta no. Zdenek Zeman non lo sopporterebbe.

Tra il boemo e la Roma non è solo amore: ci sono stati momenti, diciamo così, di forte incomprensione. Lo dice la storia. E non entriamo nella sfera tecnica, i derby persi non c’entrano. Estate 1999, una calda domenica di giugno. Zeman è nel suo appartamento al Fleming, il giorno prima aveva salutato la squadra: cominciavano le vacanze e sapeva che alcuni calciatori l’anno seguente sarebbero andati via, vedi Candela e Delvecchio, che si erano promessi all’Inter e al Chelsea. Quella domenica mattina, Zeman si ritrova sotto casa un folto gruppo di giornalisti, già a conoscenza dell’arrivo di Fabio Capello, che il presidente Sensi stava incontrando proprio in quei momenti.

Dopo una lunga attesa, Zeman si presenta ai cronisti, ormai accaldati ed esausti. «Mister, allora va via?», la domanda. «No, io non so niente». «Mister, sta arrivando Capello. Lei non sarà più l’allenatore della Roma», di nuovo. E lui: «A me non risulta, me lo avrebbero detto». Invece la famiglia Sensi ancora non gli aveva comunicato nulla. Alla fine Zeman si fida ma ha bisogno della chiamata ufficiale da Villa Pacelli, che arriva solo dopo un paio di giorni. Il boemo si presenta a casa Sensi, fumando. Sale e, una ventina di minuti dopo, riscende, fumando. «Mister, allora? Sensi le ha detto di Capello», domanda. «No», risposta. Possibile? Sì. O meglio, sì e no. Sensi gli ha fatto capire di essere costretto a rivedere certe scelte tecniche ma che il contratto (che era stato accettato da Zeman solo a parole) sarebbe stato onorato.

Quindi: nessuno gli ha parlato dell’arrivo di Capello ma Zeman, che non è stupido, lo aveva capito da un po’. Sensi fu di parola e lo pagò comunque, ma fece a meno di lui. Prima ferita. La seconda, sei anni dopo, estate 2005. Come se qualcuno a Trigoria volesse farsi perdonare. Nessuno dei Sensi ce l’aveva con lui, ma era solo l’accontentare una volontà, vincere, e con Zeman, avevano detto al presidente, la Roma non poteva riuscirci.

La squadra veniva da un anno disastroso, quello dei quattro allenatori, c’era la necessità di cambiare. Chi prendiamo? Zeman. Ed ecco il perdono con gli interessi. Zdenek ci riprova, con la speranza di non scottarsi, ferirsi per la seconda volta. La Roma si salva a Bergamo (gol di Cassano), e Zeman, corteggiato da Pradè, viene convocato a Villa Pacelli. Sarai tu il nostro allenatore, questi sono i soldi, etc etc. Il boemo accetta, felicissimo. La Roma fa passare qualche giorno e, dopo una riunione con UniCredit (dove si racconta – non ci sono smentite – fossero presenti i Moggi), si stabilì che Zeman non poteva (doveva) essere l’allenatore della Roma. Guidolin, Trapattoni, chi vi pare, non lui, il nemico. E arriva Spalletti. Che non andò male, a dire il vero. Ma Zeman accusa il secondo colpo. E qualche tempo dopo disse: «La Roma? No, mi sono ferito due volte, la terza non la sopporterei». Comprensibile.

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