La Roma boema non è mai stata di Zdenek

La Roma boema non è mai stata di Zdenek

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ZEMANCORRIERE DELLO SPORT – G. DOTTO – Ora lo sappiamo, Zeman alla Roma era fatto della stessa materia dei sogni. Emozionante e fragile. Evaporato una mattina a Trigoria, dopo una notte da incubo. E quel drammatico lapsus di un ragazzo dai guanti troppo grandi per delle mani così piccole e tremule, che ha mandato all’inferno il suo benefattore per avergli regalato quei guanti troppo grandi. Truccato da gag del cinema muto, un manrovescio di rara violenza. E, in fondo a quella notte, teste sudate, confuse, forse anche spaventate, alla fine arrese.

Ho provato a immaginare la veglia di Franco e Walter, due uomini onesti dentro una trappola che più infida non si può. Caduti anche loro nella suggestione del nome. Ci avevano creduto, forse più Walter che Franco. L’alone mitico di Zeman.(…)L’Uomo del Destino si rivelava invece l’Uomo del Cremlino, uno stregone ossificato nei suoi dogmi, nella fissità da vecchio bolscevico del volto e della parola, al servizio di una pedagogia gonfia di precetti e di ammonimenti, ma quasi mai credibile perché di qua c’erano i figli e di là i figliastri. Qua sempre la carota, là ogni volta il bastone.

Condannati a dover fare una cazzata dopo l’altra, Baldini e Sabatini, perché il peccato era originale, quella svista dentro la lente deformante del “mondo come vorrei che fosse”, quello scarto penoso tra il mito e l’uomo. Una sconfitta di tutti e un piccolo lutto, a suo modo. Tra la nostalgia di quello che sarebbe potuto essere e l’insostenibile pesantezza di quello che è stato. Pedanti guardiani del mondo come motore immobile mi denunciano pubblicamente per essere stato zemaniano a oltranza, anche dopo il derby, e poi antizemaniano spietato da gennaio in poi. Incoerente! E’ vero, non siamo abbastanza ciechi per sposare il concetto che l’amore è cieco. Nemmeno quello per Zeman.

(…)Zeman è partito con due errori fondamentali, silurando pubblicamente De Rossi, di cui avvertiva l’eretismo incombente, e stringendo un patto “scellerato” con Totti. Scellerato perché, consegnandosi anima, corpo, risatine complici e ammiccamenti sparsi all’immenso talento del Capitano, ha esaltato lui, estraendone risorse impensabili, e svuotato il resto della squadra. Diffondendo in tutti i modi possibili, la domenica in campo e la settimana a Trigoria, il messaggio che la Roma era Totti, poi tutto il resto.

Magnifici gregari come Florenzi, Bradley, Piris e Thatchidis si sono immolati per Zeman, senza mai però lontanamente equilibrare il deficit motivazionale di gente come De Rossi, Osvaldo, Stekelenburg, Pjanic, Castan, Marquinho. Mezza squadra, quella che conta. La testa non si comanda, resti un professionista, ma l’anima la lasci a casa. Lo stesso Lamela si è applicato per diventare ciò che Zeman voleva, ma, mi gioco la mano sinistra, non ha versato mezza lacrima sul suo esonero.

Il praghese ha colpevolmente lasciato che questo “malessere” diventasse cancro, fino al suicidio di venerdì sera. Ma la “sua” Roma non era mai stata sua. (…) Zero profondità, ritmi bassi, tagli non pervenuti. Questa Roma è stata veramente nella pienezza del suo talento solamente all’Olimpico con Fiorentina e Milan, le uniche due squadre che l’hanno lasciata libera di “giocare”. Venerdì sera, ma già a Bologna, si è capito che questa squadra, zemaniana, non lo sarebbe diventata mai. Semplice. La Roma ha rigettato Zeman, così come si rigetta un organo non compatibile.

Tra conati e nervi tesi. Punto e basta. Zeman è stato il sogno di molti di noi, ma è stato ed è soprattutto il sogno di se stesso. Noi possiamo faticosamente liberarcene, lui no, lui continuerà a sognarsi. E’ questo il suo lieto fine.

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