REPUBBLICA.IT (F. Bocca) – E’ arrivato a Roma Thomas Di Benedetto, 61 anni, imprenditore americano nato a Boston e con lontane origini salernitane. Le sue prime dichiarazioni – alla Gazzetta dello Sport – parlano di una “media company” e di una società di calcio moderna con tutti i crismi che conosciamo e che tanto ci siamo ripetuti in questi anni: dallo stadio di proprietà, allo sviluppo del merchandising, per arrivare – e credo che questo sia l’aspetto che interessi di più ai tifosi – a sei colpi di mercato, sei nuovi giocatori (grandi? grandissimi? non so) con cui impostare la Roma del prossimo anno. E ancora “riportare la squadra nei parametri del fair play finanziario” – e dunque colpi da matto sarebbero quasi impossibili – e una “una squadra capace di vincere lo scudetto ogni anno”.
Le parole sono importanti, sono un primo impegno che fa uscire la nuova proprietà straniera della Roma da quell’angolo di mistero in cui si era nascosta fino ad oggi. Per ovvi motivi di prudenza. Su quale sarà però la reale dimensione della Roma ancora non possiamo dire: i programmi per ora restano parole, e in qualche caso nemmeno quelle. Continuo a dire che la prudenza in questi casi è il migliore atteggiamento possibile, senza farla sconfinare in diffidenza, perché non ce ne è motivo. Il cambio di proprietà sia pure in un grande club è un qualcosa di ciclico, inevitabile. Una stabilità assoluta nella storia del calcio siamo stati abituati a vederla solo nella Juventus, tutti gli altri club prima o poi hanno una svolta di questo tipo.
E’ la prima volta che un grande club finisce nelle mani di un proprietario straniero. Anni fa ne saremmo stati sconvolti – come del resto è successo in Inghilterra per Manchester Utd e City, Chelsea, Liverpool etc – considerandoci i depositari del gioco del calcio. Adesso la globalizzazione, soprattutto nel calcio, e il fatto che all’estero ci abbiano preceduto di molto, ci rende molto più aperti. Spero che abbiano istruito Mr. Di Benedetto sulle nostre follie, sulla nostra maniera di vivere il calcio in maniera assolutamente viscerale e molto poco ludica, su quanto sia differente un tifoso italiano (magari un ultrà) che va in curva da un supporter americano che va alla partita con il suo cappelletto, la Coca Cola e il secchiello di patine e salsicce, su quanto il calcio italiano insomma sia lontano dal baseball americano e in genere dallo sport americano. Ma se in Inghilterra questo passo lo hanno fatto, non vedo perché* non si possa fare anche da noi. Io sono sicuro che Mr. Di Benedetto si sarà informato, e come un buon pioniere sarà pronto ad attraversare un territorio, per lui, completamente sconosciuto. In bocca al lupo.