CORRIERE DELLO SPORT – G. DOTTO – Vent’anni sono un quarto più o meno di quello che ci capita da quando cominciamo ad essere romanisti a quando smetteremo di esserlo per ragioni di forza maggiore. E chissà se smetteremo. Un quarto di questo nostro contemporaneo e autorizzato delirio è invaso da cinque sillabe perfette, a scandirle o a dirle tutte d’un fiato, Francesco Totti. Uno di famiglia, possiamo dirlo, per quanto c’è intimo. Lui comincia che noi siamo già quasi finiti, nel senso di tifosi logorati e folgorati da una catena di emozioni, per fortuna quasi tutte legate all’infelicità, che sono quelle che più si ricordano. Romette a ripetizione, piaceri rari e mediocri, interrotti dall’”incidente” Liedholm barra Falcao fino agli ultimi lembi di Pruzzo, ma pure lì, in quegli anni di vacche grasse, derubati, scippati, turoneggiati e poi leccizzati.
Poi arriva lui. Il cinquesillabe dal culo basso e due piedi che cantano. Biondo, per giunta. Come il Tevere. (…) Era il 28 marzo 1993. Era la Roma di Vujadin Boskov, un genio sprecato a riscaldare panchine e a fingere di essere un allenatore. (…) Ci bastavano e avanzavano i Giannini, gli Aldair, i Balbo e i Rizzitelli, che Muzzi già stava in panchina. Tre minuti e quel sedicenne piantato a terra trovò il tempo e il modo di sventagliare un pallone che aveva già tutta incorporata la storia di questi vent’anni.
Era timido, ma così timido, che arrossiva per un niente. Arrossiva e abbassava lo sguardo quando te lo presentavano come “un predestinato”. Mazzone lo svezzò, Zeman ne fece un calciatore dionisiaco, Capello gli ha dato il titolo, Spalletti l’inventò come l’uomo che farà l’impresa. L’ha fatta, l’impresa, e altre ne farà. Quel rossore, nel frattempo, si è stinto, è diventato disincanto, ma non ha smesso di collezionare incanti. Uno su tutti, il più mirabile in assoluto per i miei canoni? 26 ottobre 2005. Cambiasso e Ze Maria bevuti, Materazzi scherzato e, dal limite, il cucchiaio su cui ancora oggi Julio Cesar s’interroga e San Siro che applaude perché proprio non può farne a meno. Lì, quella sera, in quel gesto, Totti ha eguagliato Nijinsky, il danseur divino, e non sono balle malate.
Quel sedicenne non immaginava di diventare una leggenda e ora che lo è diventato non sa di esserlo. Per saperlo deve specchiarsi ogni giorno nella devozione della sua gente. Per farlo, Francesco Totti si è detto romanista a vita. Si è dato il giallorosso come seconda pelle e camicia di forza. Folle a suo modo. Un suicidio calcistico, forse, per i cervelli anali che misurano la vita in trofei, una scelta illuminata se hai preferito garantirti una serenata a vita sotto i balconi di Trigoria.
Sapere che, prima o poi, anche lui passerà come passa ogni cosa è un tale strazio che il tifoso romanista è da anni in gramaglie alla sola idea. Nostalgici prima ancora di averlo perduto, mancanti in sua presenza. Incapaci di godere sino in fondo delle meraviglie che ancora ci dispensa perché si avvicina il giorno in cui tutto questo finirà. Si chiama lutto preventivo. Francesco questo l’ha capito. Lo sa misurare lui per primo il vuoto che lascerà. E’ la ragione per cui, prima ancora dei record e dei Piola, ha deciso d’insistere fino a che le forze lo sorreggeranno. La nostra disavventura sarà perdere le sue imprese. La sua? Non esserne stato spettatore.