Vincere. Che se non è un’ossessione, poco ci manca. Del resto, José Mourinho si è già tolto numerosi sfizi da questo punto di vista, con quei 25 titoli che ne fanno il quinto allenatore più titolato della storia del calcio. Vincere però a Roma – dove non si alza un trofeo da quasi 14 anni – e al primo colpo, sarebbe una gioia immensa.
Forse non la più grande della carriera, ma una delle più intense sì. Ecco perché Mou ci tiene da matti a questa Conference League, nonostante ad inizio stagione l’avesse indicata come secondaria rispetto al campionato. Oggi, i piani sono cambiati, ricalibrati. Nel senso che in campionato la Roma è quinta, sogna di superare la Juventus e volare in Champions, ma José sa che se c’è una speranza di dare un senso alla stagione quella è la Conference.
Ma vincere la Conference vorrebbe dire anche altro per Mourinho. E, cioè, alzare un trofeo al primo colpo, alla sua prima stagione in giallorosso, cosa che sa bene manderebbe in visibilio tutta la tifoseria romanista. Per intenderci, i grandi allenatori del passato romanista non sono riusciti a vincere nulla nel loro primo anno. Parliamo di gente del valore di Liedholm, Capello e Spalletti, tanto per citare quelli che hanno comunque lasciato una traccia a livello di trofei dalle parti di Trigoria.
Come scrive la Gazzetta dello Sport, Mou ieri si è lasciato andare anche al suo lato spirituale, con un faccia a faccia pubblicato dall’Osservatore Romano con il cardinale José Tolentino de Mondonça, archivista e bibliotecario di Santa Romana Chiesa, per molti il futuro Papa. Un incontro in cui Mou ha chiarito anche la sua fame di vittorie, che con il passare degli anni – però – è cambiata.
“Percepisco la mia evoluzione come persona pensando al fatto che per molti anni ho voluto vincere per me stesso – dice Mou –, mentre adesso sono in un momento in cui continuo a voler vincere con la stessa intensità di prima o addirittura maggiore, ma non più per me, ma per i giocatori che non hanno mai vinto. Voglio aiutarli. Penso molto di più al tifoso che sorride perché la sua squadra ha vinto. Continuo a essere un “animale da competizione”, per così dire, continuo a voler vincere come o più di prima, ma prima mi concentravo su me stesso“.
Ecco anche perché non ammette errori. O, almeno, non li sopporta: “L’errore si paga. Se commetto un errore, lo pago con l’esonero. Se un giocatore commette un errore, lo paga non giocando a beneficio di un altro. C’è qualcosa di crudele“. E forse anche per questo un giorno vorrà allenare una nazionale, per provare a vincere qualcosa anche lì. Per ora si accontenta di essere il testimonial di Topps, partner Uefa per sticker e card. “Ho allenato le squadre più forti del mondo, ho vinto in Portogallo, Inghilterra, Italia e Spagna. Trasformo i buoni giocatori in grandi giocatori e le grandi squadre in squadre di campioni. C’è solo una cosa che devo ancora fare, guidare una nazionale“. Arriverà, prima però c’è la Conference da vincere. E non solo…