Lo scorso 29 marzo il tecnico della Roma José Mourinho, nella cornice del Vestibolo della Biblioteca Apostolica Vaticana, ha incontrato il cardinale José Tolentino de Mendonça, Archivista e Bibliotecario di Santa Romana Chiesa. Il quotidiano ha pubblicato il colloquio, avvenuto in portoghese e tradotto da Claudio Bisceglia, in cui i due hanno affrontato vari temi. Uno stralcio:
CARDINALE TOLENTINO — Vorrei iniziare questa conversazione con lei, José Mourinho, e per me è una grande felicità questo incontro nella Biblioteca, ricordando, curiosamente, un maestro comune. Il Portogallo è un Paese curioso, perché uno dei nostri pensatori più originali è un pensatore nel campo dello sport, della motricità umana, e scrive regolarmente non su una rivista filosofica, ma su un giornale sportivo, «A Bola». Volevo ricordare con lei il professor Manuel Sérgio, che so essere una persona molto importante anche nel suo percorso. È sua la nuova idea, lo sforzo di creare una nuova epistemologia per la motricità umana. Lui dice che è necessario abbandonare il cartesianesimo che divide l’uomo tra ragione e cuore, interiorità e anima, e che bisogna guardare la persona umana in maniera più complessa, più unitaria. E uno dei concetti che elabora, tra gli altri, è il concetto di periodizzazione antropologica e tecnica. Lo sport, il calcio, non è soltanto tecnica. Lui dice: non ci sono tiri, ci sono persone che tirano; non ci sono salti, ci sono persone che saltano; non ci sono gol, ci sono persone che fanno gol…
JOSÉ MOURINHO — Non ci sono giocatori…
TOLENTINO — Esattamente, ci sono persone che giocano. Vorrei parlare un po’ di questo, e dell’importanza che ha avuto nel suo percorso.
MOURINHO — È iniziata quasi come una lotta, perché arrivo all’Università, Facoltà di Educazione Fisica e Sport, già perfettamente consapevole di quello che voglio per me: allenamento e alto rendimento. Con tutta l’ansia di apprendere ciò che mi interessava, la prima disciplina che ebbi il primo giorno di università fu «filosofia delle attività corporali» — era quello il nome della materia — con il professor Manuel Sérgio. E io esco dalla prima lezione e mi chiedo: a quale scopo? Lui comprese in poco tempo che avevo bisogno di essere aiutato, di essere orientato. Ed effettivamente mi dice in maniera estremamente concreta e diretta: chi capisce soltanto di calcio, di calcio non capisce nulla. È un rapporto che non è terminato, è un rapporto che ancora continua…
TOLENTINO — Un’amicizia…
MOURINHO — Non soltanto un’amicizia, è un processo permanente di apprendimento, e una delle sfide maggiori che noi come allenatori, leader di uomini, chiamiamoli come vogliamo, abbiamo oggigiorno è proprio quella di come essere leader, come ottenere il massimo, perché, ok, l’obiettivo è l’alto rendimento sportivo, ma come tirare fuori il massimo da quegli atleti, che non sono atleti ma uomini per Manuel Sérgio. Mi ha influenzato molto nel senso che ogni persona è diversa dall’altra, in questo caso ogni calciatore è diverso dall’altro, e l’espressione di ciascuno di loro in campo in termini di prestazione è fondamentalmente la conseguenza di un’empatia che si crea tra due uomini: nella fattispecie, tra un uomo molto più maturo (l’allenatore) e i calciatori. Questo tipo di empatia per me è fondamentale. Io porto sempre l’esempio di quando sono uscito dall’università. Prima di entrare nel calcio di alto rendimento, sono stato insegnante. Ovviamente avevo già ben chiaro il mio obiettivo ultimo, ma è stato un processo graduale, e ci fu un anno in cui fui messo a lavorare con bambini con problemi motori, con disturbi psico-emotivi, e io non ero preparato, non lo ero dal punto di vista tecnico. All’università avevamo diverse aree di specializzazione, e la mia era quella dell’alto rendimento, pertanto non ero preparato. Tuttavia, sono riuscito a lavorare bene basandomi su qualcosa di estremamente semplice: amore, empatia, rapporti umani. E ho raggiunto risultati inimmaginabili per me che mi consideravo molto impreparato dal punto di vista tecnico per lavorare con quei bambini. Ho ottenuto risultati fantastici basandomi esclusivamente sui rapporti umani. Ho trasferito questo bagaglio di esperienze nel mio lavoro degli ultimi 20 anni, nello sport ai massimi livelli. Ho sempre avuto questo come principio basico. Non dico di esserci sempre riuscito, a volte non ne sono stato in grado.
TOLENTINO — Questo che dice a proposito del fallimento è molto interessante. Tra le linee lei dice, «non sempre ci sono riuscito». E in effetti la conoscenza umana, la conoscenza che abbiamo gli uni degli altri, è una conoscenza che matura anche nella misura in cui ci poniamo, e se ci poniamo senza partire dalla certezza assoluta, ci mettiamo in gioco, e molte volte il “fallimento”, il mancato raggiungimento, è una tappa fondamentale per poter crescere nella conoscenza dell’altro. In un certo senso, i nostri fallimenti, le nostre disillusioni, la consapevolezza di imperfezione, ci aiutano a creare questa empatia con gli altri, perché ci mettiamo nei suoi panni e vediamo le cose con un’altra profondità, per essere un gestore di conoscenza.
MOURINHO — Le esperienze buone, quelle meno buone, non hanno prezzo. A volte penso che l’unica cosa che non mi piace molto dell’avanzare degli anni è che ho un dolorino qui, un dolorino lì, che mi sveglio un po’ più stanco, ed è l’unica cosa che davvero non mi piace dei miei 59 anni, ma se devo compararmi come persona, come allenatore, che sono due cose diverse, bene se devo compararmi con 20 anni fa… mi dispiace molto non aver avuto 20 anni fa le esperienze, buone e meno buone, e le conoscenze che ho oggi.
TOLENTINO — Per un allenatore è molto importante questa conoscenza dell’umano…
MOURINHO — Assolutamente. A livello tecnico propriamente detto, entriamo in una situazione quasi di déjà-vù, perché quello che mi succede oggi mi è già successo anni fa. Le difficoltà tecniche di oggi le ho già sperimentate anni fa. Un cumulo di esperienze buone e meno buone… ma a livello umano, ogni giorno è un giorno nuovo, e ogni persona è una persona nuova… io mi rifiuto sempre di fare paragoni tra giocatori. In questi ultimi 20 anni ne ho avuti tanti, e ciascuno è unico, a livello tecnico possiamo trovare dei punti di comparazione, ma fare paragoni tra persone è una cosa che odio fare. Ogni persona è diversa dall’altra, e anche il mio modo di pormi con loro è diverso: perché una cosa è essere un allenatore di 35 anni di calciatori di 30, altra cosa è essere un allenatore di 59 anni di giocatori di 25. Mi sento in una posizione così privilegiata e mi sento così felice in questa prospettiva. Quando uno è giovane, è all’inizio della carriera, pensa di sapere tutto. E quando oggi vedo le generazioni più giovani con questo tipo di pensiero, non lo critico… ci sono passato da lì, la maturità è una cosa fondamentale. Invece lo sport di alto rendimento conosce momenti di vera crudeltà.
TOLENTINO — Per esempio?
MOURINHO — Siamo pagati per vincere. Gli atleti, non gli uomini, sono pagati per vincere. Stiamo parlando di alto rendimento, e a volte ci sono decisioni nella gestione di una squadra che hanno qualcosa di crudele: non c’è il tempo di lasciare maturare, di lasciare crescere…
TOLENTINO — La dittatura dei tempi stretti…
MOURINHO — L’errore si paga. Se commetto un errore, lo pago con l’esonero. Se un giocatore commette un errore, lo paga non giocando a beneficio di un altro. C’è qualcosa di crudele, ma non possiamo lasciare che la natura del nostro lavoro si sovrapponga a quello che siamo come persone. Ce l’ho ben chiaro questo. Cerco di aiutare gli altri e me stesso a essere migliore. Una cosa difficile per me da accettare è lo spreco del talento, è una cosa che ancora oggi dopo 30 anni di calcio, è difficile per me da accettare. A volte, però, lo spreco di talento è legato al percorso di vita che alcuni giocatori hanno avuto, e in questo senso dobbiamo cercare di essere pedagoghi fino in fondo. Lo sport di alto rendimento, in particolare il calcio, che è lo sport più industrializzato a tutti i livelli, ha qualcosa di crudele.
TOLENTINO — Ma è importante questo: non smettere di aiutare ciascuno a nascere, a scoprire, a maturare, a sviluppare il proprio talento. Una delle parabole di Gesù è proprio sul tema dei talenti: questa necessità da parte di ciascuno di noi di non sotterrare il proprio talento, ma di maturare la propria vocazione. Ciascuno di noi è nato con un bagaglio di attitudini, competenze e può trasformare la propria vita.
MOURINHO — Percepisco la mia evoluzione come persona pensando al fatto che per molti anni ho voluto vincere per me stesso, mentre adesso sono in un momento in cui continuo a voler vincere con la stessa intensità di prima o addirittura maggiore, ma non più per me, ma per i giocatori che non hanno mai vinto, voglio aiutarli… Penso molto di più al tifoso comune che sorride perché la sua squadra ha vinto, alla sua settimana che sarà migliore perché la sua squadra ha vinto. Continuo a essere un “animale da competizione”, per così dire, continuo a voler vincere come o più di prima, ma prima mi concentravo su me stesso…
TOLENTINO — Adesso, invece, prevale l’importanza di regalare allegria agli altri. Un po’ questa stessa cosa la sto vivendo anche io da quando mi è stata affidata una missione molto bella dal Santo Padre: aiutare a gestire la Biblioteca, che è uno specchio della storia dell’umanità, della memoria, della cultura. Ma io trovo che il suo lavoro, José Mourinho, il gioco, è qualcosa di umanamente ricchissimo. Roger Caillois, nel suo saggio sul gioco e l’umano, dice che il gioco è una sorta di specchio di tutto ciò che è umano, e infatti guardando la dimensione ludica che lo sport esprime, tocchiamo qualcosa di fondamentale nell’umano. Le persone, per esempio, il tifoso comune, quando si reca allo stadio, non ci va soltanto per dimenticare, per festeggiare, non è soltanto alla ricerca di una piccola allegria, ma in qualche modo è presente l’ambizione di toccare qualcosa, di andare più lontano, di comprendere il mistero della vita, il suo significato. Non so se questo per lei ha senso…
MOURINHO — Ce l’ha. Lo sento. Nel percorso verso una partita, intendo l’uscita dall’hotel, la discesa dal pullman, l’arrivo allo stadio, la passeggiata verso lo spogliatoio, la camminata dallo spogliatoio al campo prima dell’inizio della gara c’è molta spiritualità in tutto questo, non è mai una routine, per quanto si giochi decine di volte nello stesso stadio, e si faccia sempre lo stesso percorso, è un momento che ha qualcosa che non si vede, ma che si sente tanto. Lo ritengo di una bellezza enorme e ritengo che il giorno che smetterò di allenare, che spero non sia presto, sarà forse la cosa che più mi mancherà: sentire questa dimensione che mi porta verso direzioni che non ho mai condiviso con nessuno, e che oggi forse condivido per la prima volta. Camminare verso la partita e parlare con Lui…