CORRIERE DELLO SPORT – M. EVANGELISTI – Le valigie di Silvio Piola sono state aperte cent’anni dopo. C’erano dentro 1.700 foto. Dure a morire, le foto. I palloni continuano a volare, i capelli a impennarsi. Il bianco e il nero a risplendere. Hanno superato la guerra. Un po’ ne aveva in cantina la moglie di Piola, Alda Ghiano, che del marito ha visto una sola partita, l’ultima in Nazionale. Per tutte le altre Piola la supplicava: stai a casa, allo stadio si sentono troppe parolacce.
(…) Paola Piola, la figlia del centravanti che ha segnato di più, ne ha in casa un angolo pieno che non ha nulla del sacrario. E’ un golfo della coscienza, semmai. «Sono psicologa. Ho esplorato la geografia di tante persone. Era arrivato il momento di esplorare quella di mio padre». Lo ha fatto anche in un bel libro scritto con Lorenzo Proverbio. Ieri lo ha regalato a Francesco Totti. Da quella casa la retorica resta fuori. (…)
Forse è retorica anche la storia del record di gol, di quanti dovrebbe segnarne ancora Totti per prendere Piola, se dai 227 che ha in Serie A dovrebbe arrivare a 274 o a 290, contando anche quelli realizzati nell’unico campionato non a girone unico, quando l’Italia era spaccata in due dalle crepe della guerra. Talmente spaccata in due che un giorno si raccontò che Piola era morto, gli fecero il funerale e fu lui stesso a interrompere il lutto chiedendo che cosa fosse successo di tanto triste. Quindi Silvio ha anche questo primato: l’unico ad aver giocato altri sette campionati dopo le esequie.
Ma non è poi così retorico. E’ importante. La dottoressa Piola lo sa: importante non per chi ci strepita intorno, bensì per chi vive questa caccia nella selva silenziosa che porta dentro. «Mio padre giocava a carte e voleva vincere. Giocava a bocce con Giuseppe Meazza e appena l’altro si voltava muoveva il pallino. Se si andava in piscina tutti insieme voleva sfidarsi a chi si tuffava meglio. Un incubo per tutti i parenti. A un certo punto i gol si è messo a contarli. Non parlava molto, ma di questo sì. E parlava anche del fatto che non gli era mai riuscito di vincere il campionato, mannaggia. Teneva a quel record. Ci tengo anch’io. Sarò sincera, se Totti lo battesse mi dispiacerebbe. Ma lui fa bene a provarci. Sta inseguendo un sogno, proprio come faceva mio padre. Continua la sua corsa con un occhio rivolto al cielo. E’ bello».
Forse oggi Silvio Piola sarebbe un calciatore politicamente scorretto. Fintava la rovesciata e segnava di mano – ci provò più di una volta, riuscendoci contro l’Inghilterra -, andava a caccia e ha preso l’ultimo fagiano a 81 anni. Oggi giocano sotto il tiro incrociato delle telecamere. Allora giocavano sotto le bandiere con le svastiche. Per sopravvivere ci si abitua a tutto. «Doveva essere pesante quell’atmosfera. Io non l’ho vissuta. Ora essere calciatore è duro per altri motivi. Il calore umano è degenerato in esaltazione. Quando la guerra è finita il calcio è diventato rinascita. Come il ciclismo. Mio padre era amico di Coppi e di Bartali. Si trovava più a suo agio con il primo, che non lo costringeva a chiacchierare troppo». (…) Don Sassi, un prete di provincia come ce n’è in ogni buona storia, prende quei tre e altri ragazzi e li mette a giocare in una squadra scolastica che diventa la Veloces, formazione da oratorio nel senso buono del termine. L’oratorio è ancora lì e anzi con un prato discreto e lavori in corso ha ricominciato a coltivare i bambini. Non proprio come cent’anni fa, quando a Vercelli si nasceva calciatori, ma insomma. Sulla facciata della parrocchia di San Giuseppe c’è un grande volto di Cristo. Accanto alla porta dell’oratorio un ritratto stilizzato a vernice di Don Bosco. Piola manca. Non ha mai pensato di essere né un messia né un santo. Tantomeno di meritare l’attenzione degli estranei. «Non voleva andare alla Lazio. Voleva restare al Nord, vicino alla famiglia. Poi si è accorto che Roma rende normale l’eccezionalità. Andava alla partita in bus e non buttava i soldi. Aveva capito prima di altri quanto caduchi siano il benessere e la fama».