L’ESPRESSO (G. TURANO) – Obiettivo 3 giugno. A campionato finito, Thomas Di Benedetto conta di festeggiare il suo sessantaduesimo compleanno in Italia da nuovo padrone dell’As Roma. Sarà il primo proprietario straniero di un club italiano di serie A e non sarà solo. Con lui, a parità di investimento, ci saranno Richard D’Amore, James Pallotta e Michael Ruane. Avranno il 60 per cento.Il 40 per ora resta di Unicredit, arbitro, guardalinee e quarto uomo nell’ultimo match della famiglia Sensi, distrutta nel patrimonio da 18 anni di grandeur calcistica. Tom, Rich, Jim e Mike, ossia tre italiani e un irlandese cresciuti nell’area metropolitana di Boston, Massachusetts, conoscono il basket, il baseball e il football americano. Non conoscono il calcio e il calcio non conosce loro. Per questo e per l’amore italico verso la trama, i mesi di trattativa per comprare i giallorossi sono diventati un thriller dove non si capiva chi fosse l’assassino. Nel senso che risultava oscuro da dove arrivassero e chi fossero Di Benedetto e i suoi sfuggevoli compari di oltreoceano. Scetticismo e attesa messianica, i due poli dello spirito romano, si sono scontrati dal novembre dell’anno scorso, quando i bostoniani hanno fatto la prima offerta non vincolante per il club giallorosso. Nel momento in cui Di Benedetto è sbarcato a Fiumicino il 28 marzo 2011, la rassegna stampa su di lui comprendeva una vasta galleria di ritratti. Per lo più, il businessman di origini campane veniva considerato un bluff, uno sconosciuto nella sua stessa città, un poveraccio che viaggia in economica. In romanesco, un sòla.
Proviamo a spostarci a Washington, la capitale. Al numero 1401 di K street, a circa 500 metri di distanza dalla Casa Bianca c’è la sede di una società che si chiama Jefferson, Waterman International (Jwi). Di Benedetto è il chairman, ossia il presidente non operativo del consiglio di amministrazione. La società viene definita come “una ditta che fornisce al governo federale rappresentanza e consulenza sia politica sia strategica a governi stranieri e multinazionali”. Il fondatoreCharles Waterman ha lavorato per decenni ai massimi livelli della Cia. E stato vicepresidente del National Intelligence Council e capo delle operazioni di spionaggio statunitense in posti come il Kuwait, l’Arabia Saudita, l’Egitto, il Libano e la Giordania. Tutti gli altri rappresentanti di Jefferson Waterman vengono dai ranghi delle forze armate o dai servizi dell’intelligence americana. Tutti, salvo Di Benedetto. Ma è piuttosto difficile che una lobbying firm di questo livello abbia preso come presidente un figlio di paisà italiani, soltanto perché passava di là e perché non ama parlare con i giornalisti.
L’elenco dei clienti di Jefferson Waterman è, per certi aspetti, inquietante. Com’è d’uso fra i colossi del lobbying nati nell’era Bush all’incrocio fra interessi pubblici e privati, la società di Washington rappresenta gli interessi di Alassane Ouattara, presidente della Costa d’Avorio, ed ha avuto fra i clienti l’Alleanza per il nuovo Kosovo, partito fondato da Beghjet Pacolli, una decina di Stati (Algeria, Croazia, Corea del Sud, Rwanda, Ghana, Bulgaria, Nicaragua, Romania, Giamaica , l’organizzazione per il commercio estero giap- ponese, la banca internazionale del-l’Azerbaijan, la fondazione Veterani di guerra del Vietnam e aziende come Chevron, Cisco e Bae systems. Negli anni Novanta non è mancata qualche scelta controversa, come quando ha rappresentato gli interessi della dittatura birmana. Bisogna dire che l’ambiente è nettamente conservatore e le simpatie dello stesso Di Benedetto vanno al partito repubblicano, come è tradizione nella comunità italo-americana di Boston. La dimensione di Jwi, e la rete di amicizie ad alto livello in zona Capitol Hill, sembra essere del tutto sfuggita. Soprattutto agli uomini di Unicredit. Nel corso della trattativa con la banca, Di Benedetto ha più volte confessato ai suoi uomini un certo disagio nell’essere trattato dall’alto in basso. E non tanto dai giornali italiani, che lui non legge, quanto dai dirigenti della banca venditrice, impegnati a togliere dal fuoco la castagna del club giallorosso e sottoposti a pressing asfissiante dalla stampa italiana, dalle radio romane e dalla tifoseria.
Forse l’apparenza inganna e il sogno americano è fuori luogo in zona stadio Olimpico, ma per arrivare così vicino alla Casa Bianca, Di Benedetto ha dovuto lavorare duro. Figlio di una famiglia umile, con un padre sbarcato in America a 16 anni e, a quanto si racconta, calciatore di buon livello nelle leghe del soccer locale, il futuro presidente della Roma si è laureato al Trinity College di Hartford (Connecticut) nel 1971 ed è riuscito a entrare nella Pi Gamma Mu, una di quelle consorterie universitarie simili a una loggia massonica su base locale. Le foto dell’epoca mostrano lo studente, già non troppo atletico, in canottiera da basket e con l’armamentario protettivo per il football americano. Due anni dopo, nel 1973, ha conquistato il master in Business Administration a Wharton, uno degli Mba più prestigiosi. A studiare insieme al giovane italo-americano c’era Michael Ruane, l’irlandese democratico che, a quarant’anni di distanza, è di gran lunga il più ricco della cordata As Roma, con un patrimonio stimato in diversi miliardi di dollari. Dopo I’Mba, Di Benedetto ha lavorato in alcune case di investimenti (Allen & co, Salomon Brothers, Morgan Stan-ley). Nel 1983, in pieno furore economico reaganiano, ha fondato il Big (Boston international group), attivo nel settore delle fusioni e acquisizioni. Al Big si sono aggiunte, negli anni successivi, partecipazioni in società immobiliari, finanziarie e di software. Una delle principali è la Alexander’s, un’immobiliare gestita dal Vornado Realty, uno dei trust specializzati in real estate più grandi degli Stati Uniti. Cattolico devoto, Di Benedetto ha regalato milioni di dollari alla chiesa locale, inclusa una casa di riposo per sacerdoti nella zona di Cape Cod, ed è rimasto molto legato al cardinale Bernard Francis Law, arcivescovo metropolita di Boston dal 1984 al 2002, quando è stato travolto dallo scandalo dei preti pedofili. Law, che oggi è reggente della basilica romana di Santa Maria Maggiore, èuna delle prime persone che Di Benedetto è andato a trovare durante il suo viaggio di marzo nella capitale.
L’idea di cercare valore nelle aziende medio-piccole per comprarle a poco o nulla e venderle bene è sempre stata la guida di Di Benedetto. Sarà così anche alla Roma, che il businessman italoamericano si è portato a casa per un piatto di lenticchie. Ma i giallorossi non sono il suo primo investimento sportivo. Nel 2002, c’è stata l’acquisizione dei Boston Red Sox per 700 milioni di dollari in cordata con i partner della Nesv (oggi Fenway Sports Group). Le calze rosse, ex squadra di Babe Ruth, erano una nobile decaduta del baseball. Non vincevano da 86 anni e affogavano nei debiti. I nuovi proprietari sono stati bravi e fortunati. Dopo appena due anni, nel 2004 i Red Sox hanno vinto le World Series della Major League Baseball. Lo stesso gruppo di azionisti, guidato da John Henry, si è trovato durante la stagione calcistica 2010-2011 a considerare due proposte di acquisto di squadre indebitate. Una era il Liverpool, l’altra era la Roma. Fenway Sports si è orientata sul club inglese. Di Benedetto, pur essendo diventato socio di minoranza dei Reds di Liverpool, ha deciso di insistere con i giallorossi. Ruane è stato contattato in quanto amico di studi. Non è solo il più ricco. È anche il più riluttante ad apparire. Dato il lavoro che fa, Ruane tutto vuole meno che essere associato a una società sportiva. Men che meno al calcio europeo, noto nel mondo come una macchina per produrre perdite e debiti. I clienti potrebbero allarmarsi e il TA Associates Realty di Ruane non gestisce soltanto ricchezze private ma anche, com’è tipico degli Usa, fondi pensionistici pubblici. Fra questi, quello dello Stato del Massachusetts. In altre parole, bisogna che l’investimento di Ruane nel calcio sia tenuto ben distinto dalle sue attività principali.
Non ha questo problema James Pallotta. Il più giovane dei quattro (53 anni) ha partecipato nel 2002 all’acquisto dei Boston Celtics(National basketball association) con un quota di 20 milioni di dollari sui 360 milioni di investimento complessivo. Anche qui la squadra era in declino dopo gli anni trionfali di Larry Bird. Per tornare a conquistare l’anello di campioni c’è voluto un po’ di più di quanto ci abbia messo Di Benedetto nel baseball. Il titolo Nba è arrivato nel 2007-2008. Di origini calabro-pugliesi, Pallotta vive con gli hedge fund. Dunque, pericolosamente. Nel 2004, al massimo della bolla speculativa, gestiva un fondo dal nome simbolico, il Raptor Global,garantiva ai suoi partner ritorni sugli investimenti nell’ordine del 20 per cento all’anno e incamerava uno stipendiuccio di 194 milioni di dollari. Quattro anni dopo, con la crisi finanziaria, il Raptor Global è saltato. Non che Pallotta sia finito sul lastrico. Previdente, si era comprato una villa di 22 stanze su un’area di 27 acri a Weston, nei sobborghi chic di Boston. Nel 2009 il finanziere è tornato in attività negli hedge fund con il Raptor Evolution, accreditato di una massa gestita di 11-12 miliardi di dollari. D’Amore è il quarto moschettiere della cordata. Ha 56 anni e un Mba a Harvard seguito da esperienze in Hambro International e Artur Young. Dal 1994 si è messo in proprio con la North Bridge Venture Partners che amministra oltre 3 miliardi di dollari. Ha interessi nell’hi-tech (Veeco instruments e Solectron) e nell’industria medica con la Phase Forward del gruppo Oracle di Larry Ellison. Anche D’Amore, figlio di un sarto, viene da una famiglia di lavoratori che hanno investito nell’educazione dei figli. La sorella, Patricia D’Amore, è una scienziata molto nota nel campo dell’oftalmologia. La squadra dei proprietari della Roma è questa. Potrebbe cambiare nel giro dei prossimi mesi, se Unicredit cederà parte del suo 40 per cento a soci italiani. In ogni caso, sembra certo che Di Benedetto sarà il manager esecutivo e che gli altri avranno più che altro il ruolo di soci finanziatori. Se riusciranno o falliranno, è presto per dire. Di certo, sono partiti col piede giusto visto che hanno comprato a poco. Ma, altrettanto di sicuro, arrivano in un pianeta sconosciuto e ostile dove ben pochi sono riusciti a guadagnare. A partire dagli yankees che hanno investito nella Premier League inglese. In Italia non sarà più facile.