CORRIERE DELLA SERA (M. GAGGI) – «Sì ogni tanto vengono da noi» dicono con orgoglio i gestori di «Mike’s Pastry» e del «Caffè dello Sport» , due locali quasi affiancati lungo la Hanover Street, cuore di North End, il quartiere italiano di Boston, che ha mantenuto le sue vecchie caratteristiche assai più di una «Little Italy» di New York ormai quasi totalmente cinese. È qui che è cresciuto James Pallotta, il finanziere miliardario, gestore di un «hedge fund» di successo, che affianca Thomas DiBenedetto nella non facile impresa di rilanciare la Roma Calcio «americana»
DiBenedetto è di un altro quartiere -è di Everett, come Richard D’Amore, mentre il quarto amico della «cordata» , Michael Ruane, è di Peabody, il sobborgo che separa Boston da Salem, la «città delle strege» -ma a North End deve essere stato attirato, oltre che dagli amici italiani e dai bar che danno il calcio europeo in diretta, dai cannoli di Mike’s che fanno impazzire i bostoniani (troppo unti e con troppa ricotta per i nostri gusti). Ma a Roma l’imprenditore americano non verrà certo a smaltire i chili in eccesso. Il suo obiettivo -una volta avuto il via libera dell’Antitrust e completata l’Opa -è in primo luogo quello di far dimagrire un bilancio appesantito da 40 milioni di euro di deficit e in calciatori. Un equilibrio non facile da trovare, visto che il nuovo proprietario della Roma promette di acquistare subito 5-6 giocatori di valore. Andranno via vecchie glorie che avevano strappato contratti molto generosi, arriveranno «promesse» che accettano ingaggi in linea con la nuova realtà economica. Se fosse impostata solo su una logica di tagli, la Roma «americana» non andrebbe, però, da nessuna parte. E, infatti, la scommessa di DiBenedetto e dei suoi soci è diversa: risanare, ma anche rafforzare recuperando risorse con una rapida espansione dei ricavi da ottenere trasformando la Roma in una «media company» che dovrà fare soldi non solo con gli sponsor ufficiali, i diritti televisivi e i biglietti dello stadio, ma anche con un «merchandising» molto più esteso di quello attuale, il nuovo stadio che sarà, nelle intenzioni, una cittadella di sport e affari, l’uso della squadra per la promozione di attività turistiche. È questa la filosofia nuova di Di-Benedetto, che a Roma è portato dal cuore ma anche dal portafoglio. uno che viene con l’obiettivo dichiarato di ottenere un risultato economico positivo, che il benefattore di turno disposto a bruciare centinaia di milioni di euro per un non meglio precisato «ritorno di immagine» . Gli imprenditori americani della cordata di Boston non sono dei giganti, sono stati criticati (anche da chi scrive) per aver cavillato a lungo sulle condizioni contrattuali, spuntando alla fine da Unicredit un prezzo molto basso e un grosso contributo -sotto forma di prestito -per coprire le perdite pregresse.
Qualcuno ha avuto da ridire anche sulla scelta di incorporare la nuova società nel Delaware, Stato che offre condizioni fiscali particolarmente vantaggiose. Scelte che a volte hanno sollevato qualche interrogativo ma pienamente legittime, che denotano una forte attenzione alla precaria situazione contabile della società. I dubbi rimangono: ad esempio per il riemergere di un personaggio discusso, l’avvocato Joe Tacopina, che già nel 2008 si agitò molto ai tempi del (presunto) interessamento di George Soros per la Roma. Venne sollevato un gran polverone, il vecchio finanziere di Wall Street si ritrovò assediato dai tifosi che gli porgevano sciarpe giallorosse. Risultato: quando, a New York, lo intervistai nel bel mezzo della crisi che mise alle corde i mercati finanziari alla fine di quell’anno tormentato, Soros negò con aria inorridita qualunque interesse per attività che avessero a che fare col calcio italiano. Tacopina poi ripiegò sul Bologna, e anche lì le cose non andarono bene. Ora riemerge in quanto amministratore delegato della Madison Avenue Sport &Entertainment, la società di consulenza che ha preparato il piano di sfruttamento commerciale per la nuova Roma «made in Usa» .
Altra cosa che lascia un po’ perplessi è il ruolo defilato scelto da Pallotta che è il partner con maggiori disponibilità finanziarie (un patrimonio personale di almeno un miliardo) e un’esperienza sportiva costruita sulla passione per il basket e il suo ruolo di azionista -di minoranza ma assai attivo -dei Boston Celtics. Alla fine è sempre a DiBenedetto che si deve tornare. Sua l’idea iniziale di puntare sulla Roma, sua la cordata che fece l’offerta a febbraio, sua la compagine che arriva ora in porto dopo aver cambiato in corsa quasi tutti i soci: a febbraio con DiBenedetto c’erano Ruane, l’immobiliarista della Florida Arthur Falcone, l’assicuratore Julian Movsesian (che già dava interviste da padrone della Roma) e, soprattutto, William Powers, che in California è direttore generale di Pimco, il più grande fondo obbligazionario del mondo. Appena due mesi dopo il traguardo è stato tagliato da una compagine totalmente diversa (salvo Ruane). Cosa sia accaduto nel frattempo non è noto. Del resto gli uomini d’affari americani amano mantenere una certa riservatezza sulla loro attività, a parte le informazioni che devono fornire al mercato. per obbligo di trasparenza. Di certo DiBenedetto non mente quando dice di essere un uomo di sport, oltre che si impresa: tra le sue multiformi attività c’è, com’è ormai stranoto, la partecipazione di minoranza nella New England Sport Venture, la società che controlla il Liverpool (calcio) e i Red Socks: la squadra di baseball di Boston per la quale «lo zio Tom» (come già lo chiamano a Roma) ha fatto il tifo fin da bambino. L’amore per la città e la squadra, ha raccontato lo stesso DiBenedetto, è invece nato ben prima di assistere all’Olimpico alla vittoria sull’Inter nel girone d’andata di questo campionato. Risale agli anni in cui questo americano sessantunenne studiava al Trinity College che per 25 anni ha organizzato proprio a Roma «camp» estivi e periodi di studio. Meglio, però, non puntare troppo sul «cuore giallorosso» : Tom è in primo luogo un uomo d’affari.