Quel marziano di Sdengo…

Quel marziano di Sdengo…

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(Il Romanista – G.Sansonna) Il set è perfetto. Una stazioncina di frontiera, incastrata tra la Maremma ingiallita e le acque stagnanti del lago di Burano, che spingono il Tirreno oltre le dune. In questa sera torrida di metà agosto sembra quasi di vederlo scendere dal treno, il profilo oblungo di Zdenek Zeman. Protagonista assente della rassegna “Passionacce”, organizzata da Carmine Fotia. Titolo evocativo, perché il boemo è “un sentimento, che non richiede spiegazioni razionali” come sintetizza Paolo Franchi, uno degli ospiti della serata. Siamo a Capalbio Scalo, molto distanti dalla patina glamour del centro storico cittadino. Ospiti del Caffè Station, luogo di passaggio in cui è saggio fermarsi, a meditare sulle portate di pesce fritto e seppioline con carciofi paradisiache, dispensate da venticinque anni dallo chef  locale.

Il posto ideale per godersi l’attesa febbrile di un campionato che si preannuncia romanzesco. Zeman si è appena ricongiunto con l’amata Roma, dopo tredici anni di assenza. “Sono tornato” urla in silenzio, con quel sorriso grinzoso alla Eddie Felson, il Paul Newman spaccone maturo de “Il colore dei soldi”. Sono anch’io ospite di “Passionacce”, per presentare in anteprima “Un marziano a Roma”, libro edito da Minimum Fax, in uscita il ventisei agosto con “Il Romanista”. Esito di un mio lungo soggiorno a Riscone di Brunico, trascorso a spiare il boemo alle prese con la sua nuova creatura. Il titolo flaianesco rimanda all’alterità seducente di Zeman.

Un uomo nordico, apparentemente distaccato, in simbiosi con la tifoseria più passionale d’Italia. Un paradosso solo apparente: Zeman ha sempre adorato il delirio mistico delle tifoserie più roventi. Fa da contraltare al gelo boemo che si porta dentro. Non vede l’ora di tornare ad esaltare l’Olimpico, drogandosi di folla, cori e fumogeni. Beffando anatemi, scetticismi e disincanti, è tornato a Trigoria. Il campionato italiano, nel frattempo, ha smesso di autoincoronarsi “il più bello del mondo”. Un soprassalto di pudore per una serie A piagata da un calcioscommesse endemico. Si vocifera di trame oscure gestite da temibili “Zingari” con la compiacenza di tanti calciatori mediocri, giovani promesse e celebrati campioni all’ultimo giro di boa. Puntualmente inclini a scommettere su tutto tranne che su se stessi. Scoperto il verminaio, torna di moda l’accorato appello all’etica, tipico riflesso condizionato italiano. Zeman assurge a indispensabile Jedi da scagliare contro l’impero del Male, come scrive persino il Wall Street Journal. “Troppo difficile, preferisco occuparmi solo di calcio” si schermisce il boemo, perplesso davanti a tanta enfasi. Era il 1999 quando Zeman chiuse la sua prima esperienza giallorossa. Si lasciò alle spalle la casa a collina Fleming, il ponentino, Totti e una serie A affollata di triadi, poteri occulti e cinici pragmatismi. Uno scenario in cui figurava da eretico scomodo. Smozzicò a mezza voce che sarebbe tornato alla sua Roma, prima o poi. Anni di assenza dalle ribalte non lo hanno ridotto a un reliquia del passato o a un semplice vessillo paranoico del giustizialismo. Il suo calcio, identico a se stesso, è ancora pieno di senso. La smania di vincere è acuita dalla maturità. Appena arrivato in Alto Adige ha spiegato a chiare lettere che Riscone “non è un villaggio Valtur”. Una premessa rafforzata dalle solite dieci sfiancanti ripetute da mille metri. Da fare ogni mattina, in meno di quattro minuti. Con intervalli di due minuti tra l’uno e l’altro. Un incubo, per tutti. “Passeggiate nei boschi”, per il boemo. L’ultimo “millino”, il decimo, è da sempre definito “il giro del carattere”. Va percorso a tutta velocità, sputando l’anima. Zeman se lo gode appollaiato come un condor, cronometro alla mano. Sgrana gli occhi davanti ai tempi da keniota di Erik Lamela, scarpette rosa e capello inamidato. L’argentino lascia i compagni arrancare alle sue spalle, sempre più lontani. Il suo sfrontato 2 e 39 brucia il record di Eusebio Di Francesco, perno pregiato e polmonare della prima Roma zemaniana. Zeman gongola tra sé, pensando che Lamela ha anche un piede di velluto e ampi margini di miglioramento tattico. Altro motivo di gioia, il ricongiungimento con Totti, “il giocatore più forte che abbia mai allenato. Il più grande del calcio italiano, insieme a Rivera e Baggio”. Oggi le primavere del Capitano sono quasi trentasei e le gambe martoriate da troppe rudezze avversarie. “Perché hai giocato troppo da centravanti” sussurra Zeman, con tono da padre, meditando di riportarlo a sinistra. Anche se Totti è cautamente scettico. Sa che da esterno si corre troppo e si segna meno. “Se fossi rimasto dove ti avevo lasciato, avresti giocato fino a cinquant’anni” gli sorride il boemo, mentre con lo sguardo gli chiede di aiutarlo a far venire fuori il talento delle giovani promesse giallorosse. “In una rosa che si rispetti ci sono due giocatori per ogni ruolo: dipende da loro stabilire chi utilizzo. E dalla mia pazzia” così Zeman ha di recente rivendicato il diritto alla propria follia amletica, piena di metodo. Torna a proporsi come enigma, come rebus carico di fascino. Spesso tautologico ai limiti dell’ovvio, eppure sempre spiazzante. Con quelle pause raggelanti che ti invitano a considerare la banalità della domanda che gli hai posto. Si parla di lui con amore, qui a Capalbio Scalo, e non se ne viene a capo. Il treno per Roma fischia, squassa il silenzio e ci ricorda che tra otto giorni all’Olimpico arriva il Catania. Si ricomincia, finalmente.

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