IL MESSAGGERO (U. TRANI) – «Quel giorno capii da solo quanto nello sport conta la preparazione fisica, anche se poi ho dovuto aspettare di studiare per averne la conferma. Feci piangere D’Amico nel derby solo perché lo sfidai sulla corsa. Se avessi voluto fare il fenomeno e metterla sulla tecnica, sarei stato umiliato. Abbracciai Vincenzo a fine partita e gli dissi che solo così avrei potuto vincere il duello sulla fascia». Francesco Rocca è come se non avesse mai smesso di correre. E lo fa, nella sua chiacchierata, per staccarsi dal suo passato di giocatore che proprio non gli interessa. Non è snobismo. «Ho fatto il mio dovere con passione, felice di giocare per la mia Roma. E, a dirla tutta, mi sono anche divertito. Fino all’infortunio». Non gli interessa, insomma, l’aspetto romantico della sua carriera. In testa e, ancora di più, nel cuore ha solo quello professionistico. I 32 anni, la metà della sua vita, in cui non ha mai smesso di aggiornarsi per essere allenatore. «A 360 gradi: lo dico con orgoglio». Ne parla seduto sul divano della sua casa all’Eur. La vista, dal suo salone, dà verso il Tre Fontane, distante poco più di 500 metri. Lì, sul campo dove oggi gioca la Primavera, si è spento il motore di Kawasaki. Ottobre del 1976. Non ne parla perché di «miele» non ha bisogno. E, comunque, ne ha in abbondanza sull’altro divano: la moglie Isa che è di Bellegra e quindi nata solo a 8 chilometri dalla sua San Vito Romano, dove hanno appena passato le feste; la primogenita Chiara, 26 anni, giornalista che si occupa di cronaca a Il Romanista e Alessandro, 21 anni, studente al 3° anno di Economia e Commercio alla Luiss. Immagini di oggi. Quelle di ieri sono, insieme con quella di un cugino ciclista scomparso di recente, appoggiate su un tavolino rotondo: il primo piano con la maglia giallorossa e il gol, l’unico in Nazionale, segnato all’Olimpico nel 10 a 0 contro gli Stati Uniti. «Decisi per una volta di non passare mai la palla e di andare dritto in porta». Alla parete, vicino alla finestra, anche la maglia dell’Hall Fame. Sta lì e fine.
La sua carriera, di calciatore e tecnico, è stata spesso romanzata. Dove è finita la verità sul suo percorso in questo sport?
«Di falsità ne ho ascoltate, ma non rispondo. Mi interessa raccontare come vedo io questo mestiere e non quello che fanno gli altri».
Come se non bastasse, si porta dietro anche qualche leggenda, come quando dopo quel derby tornò a San Vito di corsa: 50 chilometri, dopo la partita. Si ricorda?
«Sì, ma feci appena 2 chilometri. Alla svelta, sotto la neve. Perché la macchina sbandava. Avevo appuntamento con un giornalista e non ero puntuale per colpa della bufera che mi sorprese sulla strada di casa. Non avevamo il telefono, andai a quello pubblico. Chiamai io. Storia, insomma, ingigantita».
Da quasi 3 anni è fuori dal calcio: perché?
«Ho deciso io. Stop, rinunciando al rinnovo che mi proposero Tavecchio e Uva. Addio alla Federcalcio dopo più di 30 anni».
E’ d’accordo con chi la definisce scomodo?
«Io? Ho sempre lavorato per gli altri. Cioè per fare esprimere al meglio il giocatore. E per far funzionare l’impresa che mi affida la gestione di un gruppo. Cioè fissando sempre un obiettivo. L’infortunio mi ha costretto a prendere una via che non avevo certo messo in preventivo. Partendo da tre principi: imparare, operare e insegnare. L’Isef è stato il primo step della mia preparazione. Dovevo conoscere la macchina umana. Ma continuo a leggere anche oggi: testi di fisiologia e di medicina dello sport».
Solista, però, sì. Conferma di aver giocato, in panchina, sempre in proprio?
«Certo. La responsabilità è mia e basta. Il mio staff è al massimo di tre uomini. Io, il mio vice e il preparatore dei portieri. Non delego a nessuno. Quando ho avuto la possibilità mi sono occupato anche dei portieri. Nella mia lunga esperienza con le nazionali ho sempre curato l’alimentazione. Ovviamente confrontandomi con i medici. Ma ho sempre deciso io. Nessuno con me è stato mai a dieta. E non ci sto nemmeno io. Carboidrati, pasta anche condita. Ho appena mangiato due cioccolatini. L’alimentazione, però, deve essere calibrata e mirata. Quando la sbagli, diventa tossica.
Perché non ha il procuratore come tanti suoi colleghi?
«Non lo voglio. Il conflitto di interessi non fa per me. Non reputo giusto prendere un calciatore del manager che mi assiste?».
Previsione: quanto starà ancora fermo?
«Io sono pronto, ma l’età non mi aiuta. Ho solo una curiosità».
Quale?
«Allenare in un club. E’ più facile che in nazionale. In azzurro ho sempre avuto poco tempo. E accogli giocatori che non sono i tuoi e che arrivano con preparazioni differenti. Se invece il tuo piano è annuale hai la possibilità di programmare. E di dividere bene il lavoro».
Chi potrebbe chiamarla?
«Chi vuole vincere…».
Addirittura?
«Io sono così. Ho sempre firmato per un anno. Mi confermi solo se arrivo a dama. In nazionale ho sempre pensato che l’Italia dovesse arrivare tra le prime 4. E spesso ci sono riuscito. È come il piazzamento con il club in zona Champions. Se fallisco, me ne vado».
Quale metodo porterebbe in dote?
«Si chiama Squadra 25. È la rosa ideale, con 3 portieri, 8 difensori, 8 centrocampisti, 4 attaccanti e 2 jolly. Il sistema di gioco è il 4-4-2. Il migliore per fare il pressing sui portatori di palla e sui centrali difensivi. Linee strette, assetto cortissimo. Ma si possono usare altri moduli. Il giocatore deve dare la disponibilità per qualsiasi ruolo».
Come fece Rocca con Liedholm nella Roma?
«Sono cresciuto ala, ho fatto il mediano e mi sono ritrovato terzino. Decide l’allenatore, non il calciatore. Mi arrabbio quando sento un giocatore dire che in quel ruolo non si trova e non dà il meglio…».
Ala destra, dunque: ispirandosi a chi?
«A Domenghini. Lo vedevo non fermarsi mai con l’Inter e replicai la sua corsa. Giocammo anche insieme nella Roma».
A proposito: il miglior allenatore che ha avuto in carriera?
«Helenio Herrera. Un precursore: preparazione atletica e alimentazione. Mi legai anche a Bernardini che mi fece debuttare in azzurro e a Bearzot».
Riconoscenza per…
«La Federcalcio: mi ha fatto lavorare per 32 anni. Da allenatore, preparatore e osservatore».
Il calcio più bello?
«Quello dell’Olanda. L’Ajax di Kovacs e la loro nazionale. Solo calciatori completi: Jongbloed, Suurbier, Krol, Neeskens, Rijsbergen, Haan, Rep, Jansen, Van der Kuylen, Cruijff, Van Hanegem, Van der Kerkhof, Rensenbrink».
Quale allenatore avrebbe oggi di riferimento?
«Nel metodo, quello che più mi è vicino è Klopp. Qualche giocatore mi ha raccontato come lavora. Fa quello che piace a me. E si vede dall’atteggiamento del Liverpool in campo».
Quale pensa che sia stato il suo miglior risultato?
«Il secondo posto, nel 2008, all’Europeo con l’Under 19. E grandi soddisfazioni dall’Italia di Vicini, fui preparatore per il mondiale del 90, e di Zoff, lo affiancai da vice per l’Europeo del 2000. Sempre sul podio: terzi e secondi».
Restando all’Europeo del 2008: torna Okaka in Italia che finì nella formazione dei Top 11 senza aver realizzato nemmeno un gol. Possibile?
«Tirò fuori il meglio di sé in quella competizione. Se avesse continuato con quell’applicazione, le sue potenzialità lo avrebbero spinto tra i big».
Ha passato la vita lavorando con i ragazzi. Quale è il suo settore giovanile ideale?
«Quello che porta i giocatori in prima squadra. Pronti. Il calcio è business. Se la proprietà investe sui giovani, poi deve vedere i risultati. Il verbo da usare è forgiare. Il settore giovanile deve rinforzare, in ogni stagione, la rosa per la serie A. Evitando di spendere per altri giocatori, magari presi all’estero. E regalando i tuoi in giro per l’Italia. Ora con le seconde squadre non bisogna sprecare la nuova chance».
Di che cosa va fiero?
«Di aver puntato solo sulla meritocrazia. Così ho sempre allenato, cercando di far esprimere al meglio i miei calciatori. Pensando alla loro salute, come non è stato fatto con me: mai ho restituito un calciatore a un club con un infortunio muscolare».