GAZZETTA DELLO SPORT – A. CATAPANO – Se ne sono dette e scritte tante sullo spogliatoio della Roma, e quasi tutte erano almeno verosimili.
Giocatori con personalità o giocatori senz’anima, troppo tosti o troppo molli, stagionati o acerbi, chiacchieroni o muti, rompiscatole, scansafatiche, essenzialmente bambini viziati, in più di un caso ammazza allenatori. Se ne sono dette tante pure sui manager della Roma, e pure qui, almeno fino ad un anno fa, non ci si è discostati troppo dalla realtà. Dirigenti assenti; presenti ma dormienti; presenti ma senza poteri; quindi poco autorevoli; presenti ma senza la personalità necessaria. L’ambiente, poi, ormai lo conoscono tutti: passionale, quando le cose vanno bene; feroce, esasperante, quando vanno meno bene, non per forza male.
RECORD In questo scenario, non ci si può stupire che negli ultimi otto anni sei allenatori abbiano deciso spontaneamente di lasciare la Roma. Probabilmente è un record mondiale. Non c’è stato un esonerato, per trovare l’ultimo bisogna risalire al Carlos Bianchi del 1997. E se si eccettua Montella, congedato da una nuova proprietà dopo un traghettamento di sei mesi, non c’è stato nemmeno un allenatore nel Duemila che sia stato allontanato dalla società prima della scadenza del suo contratto. Dal Prandelli dell’estate 2004 al Luis Enrique di questi giorni. Con modalità diverse, in tempi differenti, ognuno per le proprie ragioni: sostanzialmente, però, tutti sono scappati da qui prima del tempo. Logico: con le premesse di prima, se l’allenatore è solitamente un uomo solo, l’allenatore della Roma lo è ancora di più. Spogliatoio difficile, dirigenza latente, ambiente soffocante: non è il mix letale che ha fatto fuori Luis Enrique?
CE LA FARA’? Non a caso, l’ultimo sopravvissuto è stato Fabio Capello. A lui l’assistenza di Franco Baldini è bastata ed avanzata. Duro e ipocrita in egual misura e all’occorrenza giusta: per dire, Cassano lo insultava? Lui faceva orecchie da mercante perché gli serviva in campo. Aveva le spalle grosse per tirare avanti e governare la squadra. Dopo di lui, il diluvio. Prandelli tornò di corsa dalla moglie malata, senza rimpiangere troppo la conoscenza di Cassano. Voeller durò quattro partite e dopo un k.o. a Bologna guardò i dirigenti e gli disse con l’aria stralunata: «Siete una banda di matti». Delneri se lo rigirarono come vollero, Cassano sempre lui gli mise le mani addosso. Spalletti dopo quattro stagioni molto intense praticamente impazzì, vittima non soltanto delle sue paranoie: «Questa squadra è arrivata al capolinea», disse. Poi, però, venne Ranieri che la portò quasi al titolo, salvo crollare la stagione dopo: i giocatori lo consideravano bollito, la Sensi lo aveva lasciato solo. Zeman, dunque: sa di cosa si tratta, ha il carisma e il fascino necessari, il suo scudiero si chiama Totti. Forse il boemo ce la fa.
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