IL MESSAGGERO (U. TRANI) – Arrigo Sacchi è a Fusignano. Sta ultimando la sua autobiografia. La sua vita per il calcio. Il suo gioco per la vita. Racconta se stesso e la carriera. Di tecnico e di manager. Non gli piace il nostro campionato. O meglio. Preferisce quello che accade all’estero. Oggi più di prima. Il divario è enorme. In Italia conosce bene la Juve e la Roma. Apprezza il carattere della capolista, stima Garcia. Ma non basta per promuovere le due rivali. Oltre ai pregi, elenca i rispettivi punti deboli. Che possono essere decisivi nella corsa scudetto. La Champions può intralciare la volata dei campioni d’Italia, la fase difensiva balbettante interrompere la rincorsa dei giallorossi. Tiene fuori la questione arbitrale. Non gli interessa. Prima vengono gli addestramenti e i movimenti, i sacrifici e le conoscenze.
Ritiene giusta l’attuale differenza di tre punti in classifica?
«Sì. E per tanti motivi»
Addirittura tanti. Perché considera la Juve ancora superiore alla Roma?
«Innanzitutto è l’ambiente a fare la differenza. A Roma si vive bene ed è più facile distrarsi. Bisogna avere giocatori che siano professionisti esemplari. In più i bianconeri sono abituati a vincere, a stare al vertice: quando un giocatore arriva a Torino sa che lì dovrà vivere pensando solo al successo. La squadra di Allegri è anche più completa. E in campo più determinata».
Perché la Roma deve credere nella rimonta?
«Quando gioca bene, è più brava della rivale. Più vivace e più bella. E anche perché tre punti sono niente. Se fosse l’inverso, direi che il torneo sarebbe apertissimo. Quindi… Ma per spuntarla deve fare qualcosa di eccezionale. Essendo tecnicamente e tatticamente meno pronta. Non basta il possesso palla. Nè le individualità di primo piano che ha Garcia».
La mossa che più ha convinto di Allegri?
«Lasciamo stare il passaggio dalla difesa a tre alla linea a quattro. Non c’entra niente, perché conta come ti sistemi e ti muovi. È vero che è stato chiamato all’ultimo momento, entrando in corsa, ma ha anche preso un gruppo capace di conquistare tre titoli di fila. Non allena giocatori qualsiasi. E’ stato comunque bravo a gestirli. A continuare quanto fatto da Conte. E’ il suo grande merito».
Che cosa deve perfezionare?
«Allegri ha ereditato una squadra vicina alla perfezione. Ora è fondamentale che faccia il salto di qualità in campo internazionale. In Italia può ripetersi».
Garcia, invece, ha già raggiunto il top?
«Il massimo non si ottiene mai. Ma ha sicuramente fatto un buon lavoro. In questa stagione non è stato finora fortunato. Tanti infortuni e alcuni acquisti non centrati».
Perché la Roma spesso non convince contro le big?
«Io non guardo chi affronta, ma come si comporta. Manca completamente la fase difensiva: se, quando la palla la giocano gli avversari, avesse l’organizzazione dell’Empoli sarebbe già davanti alla Juve».
L’aspetto tattico può dipendere dai singoli?
«Certo. Alcuni giocatori, fondamentali nella scorsa stagione, hanno adesso un anno di più: De Sanctis, Maicon, De Rossi, Totti e gli stessi Cole e Keita. Gervinho resta importante, ma va troppo per conto suo. E la squadra non riesce a tenere lo stesso ritmo del campionato passato. A volte molti camminano. Ha perso la brillantezza che la caratterizzava. Con la vivacità e l’entusiasmo arrivavano le prestazioni e quindi i risultati».
Come mai la Roma in Champions non è riuscita a superare la prima fase?
«Risposta scontata: l’asticella in Europa sale tantissimo. In Italia si gioca con meno intensità e senza continuità. Il calcio è più individuale che collettivo. All’estero non hanno solo buoni giocatori, ma calciatori che lavorano con e per la squadra. A tutto campo».
Tatticamente che cosa deve cambiare il francese?
«Sarò pure ripetitivo, ma sono fondamentali le due fasi. Penso che non abbia i giocatori adatti per riuscirci. Ha interpreti monotematici. Che non collaborano tra loro. Non basta fare bene la fase d’attacco, perché il puzzle poi non si può completare. Ha diversi giocatori offensivi: Totti, Pjanic, Iturbe, Ljajic, Destro e Gervinho. Loro, pur impegnandosi, al massimo rincorrono. Il Bayern non ne ha nemmeno uno così. E nemmeno la Juve. I giocatori di Allegri, però, sono meno organizzati di quelli di Guardiola. Ma, in entrambe le squadre, tutti partecipano. Sono attivi con e senza palla. Il più bravo, in questo senso, è il mio Carletto. Sì, Ancelotti. E’ arrivato a Madrid e ha trovato grandi giocatori. Ora il Real è una grande squadra. Chiamiamolo capolavoro».
L’Europa League può togliere energie alla Roma?
«Un anno fa Garcia ha avuto la possibilità di allenare per tutta la settimana i giocatori. E si è visto. La Champions pesa di più dell’Europa League. Qualcosa, però, perdi per l’impegno infrasettimanale».
Allora è messa peggio la Juve: risentirà della Champions?
«Certo: mentalmente e fisicamente debilita».
Torniamo indietro: due difese a quattro, almeno quando la fa anche Allegri. Chi è più avanti nel percorso?
«La Juve. I giocatori sono più collegati tra loro. E spesso meglio posizionati. Se fanno il sistema puro, mi piacciono anche a tre. Se il centrale arretra non condivido: è scelta passiva e pessimistica. Di chi rinuncia a costruire».
Le due squadre sanno che cosa è il pressing?
«La Roma poco. Quando decide di andare a pressare, va al minimo. E senza convinzione. Garcia ha troppi specialisti. Loro proprio non lo conoscono. Per caratteristiche tecniche. Quando ci prova Nainggolan, grande giocatore e attualmente il più vivo del gruppo, non è certo pressing, ma agonismo. I giallorossi non si muovono e non si comportano da squadra. La Juve, invece, non è capace di tenerlo. Con la Samp, due domeniche fa, c’è riuscita per mezzora».
Alla Roma manca il centravanti?
«No. A Garcia servono giocatori totali. Ne ha pochissimi».
Chi taglierà per primo il traguardo?
«E’ così lontano. Garcia deve sperare che la Juve non si comporti come l’anno scorso. E che invece sia la Roma a ripetersi, proprio ritrovando la continuità della scorsa stagione, almeno quella della prima parte. E la forma che adesso le manca. Se la sua squadra gioca bene, vince. Ma deve sapere che la Juve, con la sua ferocia, arriva al successo anche quando non gioca bene».